Proteine vegetali ed economia circolare: intervista a Davide Ederle

Le proteine vegetali potrebbero essere la chiave di volta, o una delle principali chiavi, dell’economia del futuro: l’economia circolare.

Oggi vediamo, infatti, “germogliare” numerose iniziative di sviluppo di tecnologie che vanno in questa direzione, con sistemi di produzione che riducono gli sprechi e lo sviluppo di proteine di origine vegetale, o microbica, con caratteristiche che rispondano sempre di più alle esigenze ambientali.

È proprio per facilitare questo processo che nasce Protilla: una app pensata per ottimizzare la ricerca e la fruizione delle proteine vegetali esistenti. La app permette di effettuare una ricerca personalizzata selezionando le caratteristiche della proteina vegetale ideale, dal colore ai “free from”, fino alle capacità funzionali e alle certificazioni.

Tra i Key Opinion Leader Protilla ha voluto sentire anche Davide Ederle di Biotecnologi Italiani ed esperto del settore. Prometeus vi ripropone la sua intervista che esplora il ruolo dei biotecnologi in questa rivoluzione già attuale, ma in continua evoluzione.

 

  1. Generalmente il ruolo di biotecnologo è associato a tematiche come il DNA. Cosa ne pensa se rapportato alla tematica delle proteine vegetali?

Per definizione, le biotecnologie si basano sull’uso di conoscenze biologiche per ottenere beni e servizi e, fino a prova contraria, l’agricoltura e anche tutte le trasformazioni fermentative rientrano in questa definizione. Oggi è vero che quando si parla di biotecnologie si pensa subito al DNA, ma di certo non è che le biotecnologie che si facevano prima della scoperta del DNA siano sparite. Diciamo che, da sempre, compito del biotecnologo è stato quello di trasformare le interessantissime scoperte in ambito biologico in utilissimi prodotti capaci di cambiare la vita alle persone. Ad esempio, sapere che l’insulina regola il glucosio nel sangue è molto interessante, e questa è biologia. Prendere questa conoscenza e usarla per creare un farmaco che cambi la vita ai diabetici è utile, e questa è biotecnologia.

Per tornare al tema delle proteine vegetali e più in generale delle proteine alternative, vale la pena ricordare che nei percorsi di studi in biotecnologie industriali non manca mai il corso di chimica delle fermentazioni, perché è una conoscenza fondamentale per chiunque voglia affrontare, in ogni ambito, il tema dello sviluppo industriale legato alle innovazioni biologiche. D’altra parte, se non si considerano anche gli aspetti industriali di un progetto, per quanto abbiamo detto, bisogna chiedersi se si stia facendo davvero biotecnologia.

Quindi sì, le tecnologie legate al tema delle proteine alternative rientrano a pieno titolo nelle biotecnologie e sono, per così dire, roba da biotecnologi.

  1. Attualmente sono molte le aziende e le startup che stanno investendo in tecnologie di fermentazione per la produzione di proteine alternative (es. start up israeliana Amai Proteins). Relativamente a questo ambito, quale crede siano le opportunità che questa tecnologia ha da offrire? E le possibili difficoltà?

Amai Proteins è sicuramente interessante, ha infatti sviluppato una tecnologia per produrre in grandi quantità una proteina dolce, la taumatina, per sostituire i dolcificanti zuccherini. C’era anche un progetto italiano in tal senso che sfruttava allo stesso scopo un’altra proteina, la monellina. Questo tipo di tecnologie rappresenta però solo una piccolissima parte del mondo delle proteine alternative, che è vastissimo, che vede anche player con scommesse importanti come Mycorena, con le sue proteine vegane derivate da funghi, Solar Foods che sfrutta microrganismi in grado di crescere fissando l’azoto atmosferico, o ancora Legendairy foods che riproduce le proteine del latte per fermentazione. Ci sono poi aziende come Protera che hanno sviluppato piattaforme di intelligenza artificiale per disegnare proteine ad uso funzionale, ingegnerizzarle, e produrre per fermentazione additivi alimentari con specifiche caratteristiche. Non mancano anche realtà come Prolupin, che sviluppano tecnologie per isolare la frazione proteica vegetale e sfruttarla per le sue proprietà. Ci sono poi altri sistemi molto interessanti, come ad esempio quelli messi a punto da 3FBIO, che puntano a creare processi circolari a scarto zero. 3FBIO in particolare ha accoppiato un impianto per la produzione di bioetanolo, da biomasse vegetali, a una coltura di biomassa fungina per la produzione di proteine alternative. Sulla stessa linea molti altri progetti, anche in Italia, dove si cerca di valorizzare scarti di difficile smaltimento, come le acque di vegetazione derivate dalla lavorazione delle olive, producendo single-cell protein ad uso zootecnico. Non mancano poi aziende, e ne abbiamo diverse anche in Italia, che puntano a sviluppare sistemi per la produzione di enzimi industriali, che spaziano dall’alimentare alle bioenergie, in sistemi vegetali.

Per riassumere, si può dire che tutte queste iniziative si possono dividere in due grandi filoni, in alcuni casi sovrapposti: migliorare, in un’ottica di economia circolare, tutto il sistema di produzione riducendo gli sprechi circolarizzandoli; sviluppare nuove proteine di origine vegetale o microbica con specifiche caratteristiche funzionali.

Il primo filone è particolarmente importante se si guarda alla sostenibilità. Teniamo presente che per fare un chilogrammo di carne bianca servono circa 2 chilogrammi di mangime, se guardiamo alle carni rosse si va dai 4 per i suini ai 6 per i bovini. Disporre quindi di proteine alternative con buone proprietà nutrizionali sarebbe molto utile. Non mancano tuttavia criticità, che sono prevalentemente di natura industriale e sociale. Dal punto di vista sociale il problema è l’accettazione. Siamo ad esempio reduci dal dibattito fallimentare sugli OGM, il cui esito è stato il blocco di intere filiere tecnologiche per via normativa, anche in ambito di fonti proteiche vegetali. Purtroppo anche il dibattito sul genome editing sta procedendo sugli stessi binari. Sarebbe bene evitare di ripetere gli stessi errori.

Dal punto di vista industriale sono invece necessari due requisiti tutt’altro che banali da soddisfare: Primo, avere un sistema tecnologico economicamente sostenibile. Anche se tecnicamente un prodotto si può fare, se costa troppo, non riuscirà a trovare un mercato;

Secondo, disporre di una fonte costante di materie prime a buon mercato. Serve continuità e grandi volumi per giustificare investimenti in impianti che sono spesso di svariati milioni di euro.

  1. Può darci una visione di insieme dei processi biotecnologici per la funzionalizzazione delle proteine vegetali?

Le biomasse vegetali sono da sempre il substrato ideale per le fermentazioni microbiche, pensiamo solo a prodotti come la birra, che nasce dalla fermentazione del glucosio, racchiuso nell’amido dei vegetali, in alcol. Con lo stesso principio si utilizzano oggi melasse e altri prodotti di origine vegetale per creare prodotti ad alto valore aggiunto quali farmaci o enzimi. Ora si sta lavorando per fare un ulteriore passo avanti. La nuova frontiera è l’idrolisi microbica o enzimatica di polimeri difficili da attaccare come la cellulosa. Questo consentirebbe di trasformare una grandissima quantità di biomassa di scarto in nuova materia prima ad alto valore. Accanto a questo c’è poi tutto il filone della ricerca su nuovi idrolizzati proteici di origine vegetale, prevalentemente da leguminose, che puntano a sostituire quelli animali. Questi preparati sono molto interessanti perché trovano applicazione soprattutto come biostimolanti in agricoltura, essendo capaci di aiutare le piante a superare ad esempio periodi di stress idrico o shock termici.

  1. Ultimamente in ambito di proteine alternative si parla molto, talvolta in modo controverso, della produzione di carne sintetica, o in vitro, come una delle possibilità per il futuro. Può darci una sua visione della produzione di carne sintetica e dei sostituti alla carne?

La carne sintetica è se vogliamo l’antitesi delle proteine vegetali. Si tratta di fare coltura in vitro di cellule animali, metterle insieme, mettere ad esempio anche l’emoglobina prodotta con l’uso di funghi o lieviti per cercare di riprodurre la carne vera e propria. Al momento vedo la cosa interessante solo da un punto di vista scientifico, per ricreare sistemi biologici complessi partendo da colture cellulari. Come prodotto commerciale lo vedo però posizionato in una nicchia, in primis per i costi di produzione, ma anche per la bassa sostenibilità. Non dimentichiamo che l’idea delle proteine alternative nasce invece fortemente legata al tema della sostenibilità cercando sostituti della carne. Da decenni si lavora ad esempio sui funghi filamentosi ed esistono già oggi in commercio prodotti che si presentano come sostituti, come ad esempio il Quorn o anche derivati di alghe.

Su tutti questi prodotti c’è ancora molto lavoro da fare perché spesso hanno difetti soprattutto organolettici. Uno degli obiettivi è quello di lavorare a livello di ingegneria metabolica per far loro esprimere specifici flavour che possono aiutare e migliorarne l’accettabilità. Dal punto di vista nutrizionale sono infatti spesso eccezionali, ma il gusto non aiuta la loro commercializzazione, come ad esempio nel caso della spirulina. L’idea è quindi di sviluppare piani di miglioramento genetico selezionando dei ceppi capaci di avere proprietà organolettiche in linea con i gusti dei consumatori. A quel punto sarebbe davvero possibile trasformare l’uso di carne animale in una scelta.

In conclusione, potremo pensare di rinunciare alla carne solo se saremo capaci di sviluppare sistemi biotecnologici alternativi e sostenibili, e soprattutto gradevoli al gusto.

  1. Per concludere, come ultima domanda, come crede evolverà il ruolo del biotecnologo nel futuro?

I biotecnologi in questi anni hanno dimostrato di essere un impareggiabile motore di innovazione capace di sviluppare moltissime nuove tecnologie e creare prodotti e soluzioni davvero interessanti e potenzialmente rivoluzionarie. Purtroppo, soprattutto le più interessanti, sono state sottoposte a pesanti vincoli normativi, spesso non giustificati da un punto di vista scientifico, e questo frena di molto il loro sviluppo e la loro accettazione. Il che è un peccato, un peccato che può costarci molto caro specie se ci impediamo di utilizzare tecnologie più sostenibili delle attuali e che potrebbero aiutarci a ridurre in modo significativo il nostro impatto ambientale.

Questo non toglie comunque che siamo all’inizio di un grande cambiamento di paradigma. Nei prossimi decenni cambierà radicalmente il modo in cui sono ad esempio costruite le filiere agro-alimentari. Il tema del consumo di carne diventerà sempre più pressante, così come l’efficienza dei processi di trasformazione, la riduzione degli sprechi e il recupero degli scarti industriali.

Il biotecnologo sarà la chiave di questa nuova economia circolare.

 

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