Open Access: Intervista con David Horner
David Horner è un ricercatore dell’Università di Milano che si occupa di biologia molecolare, ma che soprattutto spende una notevole quantità di tempo (libero) come editore associato di una rivista Open Access molto quotata. Con lui abbiamo voluto fare due chiacchiere per capire come stanno davvero le cose nell’editoria scientifica oggi.
Si è parlato tanto dei problemi delle riviste Open Access. Vorrei chiederle a bruciapelo, visto che è una persona che vede il fenomeno sia da dentro che da fuori: l’open access è un bene o un male?
Questa ovviamente è una mia opinione, informata, ma pur sempre opinione. Io personalmente sono molto favorevole all’Open Access e ai benefici che può portare sia alla comunità scientifica che anche a chi è interessato ad una materia da non specialista.
E’ vero che in molti casi le riviste Open Access pubblicano di tutto?
Diciamo che sono a conoscenza di casi in cui dei lavori, rifiutati dai reviewer, dall’editore associato e dal curatore di sezione sono poi stati accettati dal Senior Editor e dalla rivista. Scandalo direte voi, ma vorrei sottolineare che la stessa cosa si è vista anche nell’editoria tradizionale.
Com’è cambiata la peer-review con l’arrivo dell’Open Access?
L’esplosione di riviste Open Access ha avuto un impatto significativo sulla qualità della peer-review. Questo cambiamento ha influenzato in modo più o meno equivalente sia le riviste tradizionali che quelle Open Access, cerco di spiegare il perché. L’ aumento del numero di pubblicazioni ha fatto alzare significativamente il livello della competizione scientifica, ora cerchiamo di pubblicare anche risultati che sarebbero rimasti in un cassetto 10-15 anni fa. Significa però anche che sempre più scienziati devono dedicare sempre più tempo nella peer-review dei lavori (invece di pubblicare i propri). La conseguenza? Sempre più ricercatori di “medio-alta” esperienza rifiutano il ruolo di reviewer, e gente come me spende sempre più tempo alla ricerca di dottorandi disposti a farlo per poter mettere in CV “reviewer per J. Neg. Res.”.
E la qualità, ne risente?
Mentre ci sono molte riviste Open Access che mantengono un’alta qualità (in realtà ci sono anche tante riviste “convenzionali” ora passate all’Open il cui impact factor è aumentato) ci sono anche molte “riviste predatorie” che bombardano gli scienziati di inviti a sottomettere lavori, un meccanismo che punta essenzialmente a spostare il finanziamento pubblico della ricerca in mani private.
In che senso?
Alcune case editrici e riviste, nate di recente, sono state create al preciso scopo di trarre profitto dalla necessità dei ricercatori di pubblicare un gran numero di lavori semplicemente per giustificare la propria posizione e, per questo, sono disposti a pagare.
Alcune di queste riviste non riescono a mantenere standard qualitativi elevati, come rilevato anche da un recente articolo della prestigiosa rivista Science in cui si mostrava come un lavoro scientificamente ed eticamente inadeguato, costruito ad arte, sia stato accettato per la pubblicazione da oltre 150 riviste Open Access, creando uno scandalo internazionale che ha fornito un pretesto per attaccare l’intero modello open access. Sfortunatamente lo studio non è stato esteso anche alle riviste tradizionali, la cui risposta a questo tipo di test sarebbe stata molto interessante, in particolare alla luce della mia ipotesi, ovvero che l’aumento del numero di lavori pubblicati ha impattato sulla qualità dell’intera peer-review, non solo quella degli Open Access.
Quindi, in conclusione?
Diciamo che non ci sono risposte buone, ma di sicuro dovremmo smettere di giudicare la produttività dei ricercatori sulla base del numero di carte che pubblicano, e sull’impact factor delle riviste su cui pubblicano, ma piuttosto sul numero di citazioni che ricevono. Questa non è la soluzione definitiva al problema, ma se le forze di mercato devono governare il modo in cui la ricerca viene fatta e comunicata, almeno proviamo a fare in modo che il suo esito ultimo (la pubblicazione) serva a migliorare la scienza, non le tasche dei magnati dell’editoria.