Il mito del seme fatto in casa – il guadagno
Prometeus pubblica oggi la seconda parte di un’analisi apparsa sul blog Biotecnologie: Basta Bugie! il 4 gennaio 2011 e dedicata al mito del seme fatto in casa.
È infatti molto diffusa l’idea che l’agricoltura moderna serva solo ad arricchire i grandi gruppi multinazionali e che, in fondo, si possa fare a meno delle sue innovazioni (chimica, genetica, agroindustria) senza particolari problemi. Uno dei miti più radicati tra chi sogna un ritorno a un’agricoltura pre-industriale è senza dubbio quello del seme fatto in casa. Un mito che forse è il caso di sfatare.
Per chi fosse interessato alla prima parte la può trovare qui.
Ieri ci siamo chiesti il perché gli agricoltori dei paesi “sviluppati” tendano a riacquistare di anno in anno la semente.
In sintesi avevamo preso in rassegna le motivazioni “gestionali” che inducono (NON costringono) gli agricoltori al riacquisto. Oggi invece vorremmo analizzare quella che forse è la motivazione più importante, decisiva, se volete, per la loro scelta, ovvero: il progresso genetico.
Il Miglioramento Genetico
Il progresso genetico possiede un suo indiscutibile fascino, almeno per dei ricercatori come noi. Si entra infatti, con il miglioramento genetico, nell’essenza stessa della pratica agricola, ovvero in quel costante processo di co-evoluzione degli esseri viventi avvenuto come risposta alla “pressione selettiva” dell’uomo che, per rispondere ai propri bisogni ha plasmato, più o meno consapevolmente, il mondo dei viventi.
Le piante agrarie e gli animali domestici (da reddito o da compagnia) sono infatti il risultato di decenni di intense pratiche di miglioramento genetico sistematico e di centinaia o migliaia di anni di lavorio che hanno profondamente modificato i loro genomi (il DNA) tanto che oggi, in molti casi, presentano la cosiddetta sindrome da domesticazione (in generale le piante agrarie non sono più in grado di sopravvivere nell’ambiente naturale da sole).
Va poi considerato che in taluni casi basta modificare anche solo pochi geni per avere cambiamenti drastici nella struttura e nel comportamento di una pianta. Ad esempio, per trasformare il teosinte in mais è bastato modificare solo poche regioni nei primi 4 cromosomi del teosinte e che all’incirca 5 geni controllano tutte le differenze più “drastiche” tra le 2 specie (guardatevi qualche “lectures” qui se volete approfondire).
Gli ibridi (di mais)
Uno dei risultati più sorprendenti di questa selezione è stata la creazione di ibridi F1 di piante allogame.
Il mais (sempre lui…) ne è un esempio principe.(1)
I genetisti agrari hanno provato, agli inizi del secolo scorso, a selezionare anche nel mais delle “linee pure” (un po’ come Mendel che aveva varietà che facevano solo piselli verdi e altre solo gialli). Selezionavano cioè un certo numero di piante che presentavano caratteri di interesse (ad esempio tolleranza alla siccità, stelo robusto, elevata produttività, resistenza ad insetti…) e, per alcune generazioni, le costringevano ad una forzata autofecondazione. Questo consentiva loro di rendere evidenti gli alleli (ovvero i caratteri) sfavorevoli e, ad ogni generazione, di scartare le piante che li manifestavano.
Nelle piante allogame questo lavoro non è facile perché queste piante quando si autofecondano si deprimono, nel vero senso della parola, tanto che questa “malattia” si chiama proprio “depressione da inincrocio” per cui queste piante non erano proprio dei “fiori”, anzi.
Negli anni ’20 sempre del secolo scorso, alcuni genetisti agrari provarono a fare un ibrido (a quattro vie), incrociando tra loro queste “linee pure” malridotte, e sperimentarono un fenomeno fantastico: l’eterosi o anche definito, non a caso, lussureggiamento dell’ibrido.
I tratti genetici positivi si manifestarono con grande evidenza, la pianta acquistava vigore, insomma crearono una sorta di “Hulk vegetale” che consentiva (e consente) rese per ettaro impensabili fino a pochi anni prima.
L’ibrido riesce a fare questo perché unisce tutti i geni positivi selezionati nelle linee pure e di converso maschera gli alleli negativi dell’uno e dell’altro parentale grazie all’eterozigosi.
Ovviamente, se il vantaggio dell’ibrido sta nel riuscire a mascherare i caratteri sfavorevoli, questo effetto viene meno se si risemina il raccolto. Riappariranno infatti qua e là, come ci insegna Mendel, piante malconce o simili ai parentali, facendo perdere di omogeneità al campo. Gli ibridi dunque non sono sterili, semplicemente, se si vuole sfruttare il loro vigore produttivo, la semente va riacquistata ogni anno.
Nell’ultimo secolo sono stati fatti ulteriori progressi (tra cui anche la messa a punto di OGM), ma oggi, da un punto di vista concettuale, coltiviamo anche qui da noi semi sviluppati grazie a questa tecnologia che ha cominciato ad affermarsi negli anni ’60 (a casa ho ancora dei numeri dell’Informatore Agrario di quegli anni in cui si riportavano i risultati delle prime prove sperimentali). Semi che da allora si ricomprano ogni anno, semi che nel caso del mais rappresentano circa il 99% dell’intera superficie coltivata in Italia (circa 1 milione di ettari).
In conclusione, gli agricoltori potrebbero farsi il seme in casa, potrebbero anche selezionare le proprie varietà attraverso sistemi ad impollinazione aperta(2).
Potrebbero, però non lo fanno. Per due semplicissimi motivi:
1) è una rottura di rotule (come già dimostrato nella parte I)
2) non andrebbero molto lontano…
…infatti, tra il 1865 ed il 1925, quando gli agricoltori si facevano il seme in casa, quant’è stato il progresso genetico?
Esatto! Zero!
Quindi, se non ci fossero state (e ancor oggi ci fossero) ditte sementiere capaci di fare ricerca e sviluppo, di trasformare in innovazione quanto le università scoprono, avremmo ancora una agricoltura ferma al 1925.
Cosa significa? Solo un po’ più di fame e devastazione ambientale.
Chi ne vuole un po’?
Note a margine
(1) La cosa potrebbe sembrare “normale”, ma non è così. Molte piante infatti sono autogame, ovvero si autofecondano, alcune anche senza nemmeno aprire il fiore. Una di queste è il grano, ma troviamo anche ad esempio molte leguminose. Insomma, le strategie di riproduzione in natura sono le più varie, non c’è una regola fissa che vale per tutti. Ogni specie fa da sé (e chi fa da sé, fa per tre).
(2) quale agricoltore infatti dispone delle strutture, delle competenze e della perseveranza richieste per la produzione di ibridi di qualità? Come potrebbe poi ammortizzare i costi di tutto l’ambaradan seminando solo poche decine o centinaia di ettari?
Leggi la prima parte dell’articolo.