Il pollo del consumatore
Andate al supermercato, comprate due confezioni di pugne secche, tornate a case e mangiatele. Potete lamentarvi con il produttore delle prugne se il vostro intestino entra in subbuglio?
Avete comprato due bottiglie di vino, qualche giorno dopo le bevete a cena con marito/moglie, fidanzata/fidanzato o con un amica/amico, poi vi gira la testa, non riuscite a concentrarvi, la mattina dopo avete un forte mal di testa….potete chiedere un indennizzo o andare alla ASL a denunciare chi ha prodotto il vino?
Se vi comprate una coscia di pollo, decidete di mangiarvela cruda, così com’è, e poi vi viene una gastroenterite da campylobacter? Potete far causa al macellaio?
Evidentemente no.
Avreste dovuto sapere che, consumando il prodotto in quelle quantità, potevate avere quegli effetti, e anche in un caso di contaminazione che non dovrebbe esserci, avete trattato l’alimento in maniera inusuale, contraria ai normali comportamenti che prevedono una cottura completa per il pollo, quindi se c’è qualcuno da biasimare siete voi stessi.
Come quel mio amico che provò a mettere il tè nella moka al posto del caffè macinato (non fatelo).
Vediamo però uno scenario un po’ diverso. Avete deciso di mettere in tavola un bel tacchino, anzi una tacchinella (5 kg?) perché avete un forno di dimensioni normali. Si festeggia con un bel gruppo di amici che non si tirano indietro.
Andate al supermercato e, al reparto carni, prendete in mano una bella tacchinella accuratamente confezionata.
Dopo averla presa, la riponete nel carrello. State attenti che non entri in contatto con potenziali fonti di contaminazione? Ad esempio i succhi, o, come era pratica negli USA già numerosi anni fa (lo facevano i cassieri), mettete in una busta a parte la carne? Oppure, come mi sembra normale in Italia, non badate a metterla con insalata o altri prodotti non sigillatati destinati ad essere mangiati crudi?
Arrivate a casa, si spera velocemente, scaricate la spesa. In frigorifero – lo sanno tutti? – evitate di mettere la tacchinella in modo che i suoi succhi colino sopra altri alimenti, o in uno dei punti più freddi.
Ora è il momento di cucinare. Prendete il tacchino e, nel lavandino, lo liberate della confezione, che rapidamente eliminate senza schizzare da nessuna parte. Qualcuno vi ha mai detto che tacchini e polli non si devono lavare perché gli esperti – nei paesi in cui di queste cose si parla – sono ormai unanimi nel ritenere che il rischio di schizzare a destra e manca batteri contaminanti supera ogni vantaggio del lavaggio di volatili preparati professionalmente? Forse no, visto che non mi sembra che neanche le riviste di cucina se ne siano accorte. Io, almeno, lo dovrei sapere. Manipolando questo tacchino, sto attento come se fossi in laboratorio – ricordi di ormai tanti anni fa – a manipolare fosforo radioattivo. Voglio minimizzare i rischi per i miei. Ma non è facile.
Naturalmente, mentre fate questa operazione, non potete rispondere al telefono, né badare ai bambini che chiamano, o all’acqua della pasta, o null’altro. Soprattutto non si può andare a toccare il barattolo del sale (che poi magari si toccherà preparando l’insalata), o aprire armadi e contro armadi.
Inserite il ripieno nel tacchino, già pronto, lo ponete sulla teglia, e chiedete a qualcun altro di infornare senza toccare nulla. Vi lavate le mani con abbondante acqua tiepida e sapone (senza schizzare!), per un minuto, poi vi asciugate con carta usa e getta. Vi avvicinata al forno per osservare i primi passi della cottura, ma un rumore vi attira: la vostra fidanzata ha appena messo a lavare nel lavello che non avevate ancora sanificato l’insalata. Sì, perché la salmonella e campylobacter saranno disintegrati dal forno, ma se vanno sull’insalata o sui pomodori, se sul tacchino c’erano, se ne finiscono dritti dritti nello stomaco degli ospiti.
Che poi gli esperti non siano d’accordo sull’opportunità di lavare il lavandino, dopo il contatto con carne cruda, con candeggina molto diluita o solo con acqua e detersivo, è probabilmente un dettaglio.
Il fatto è che, anche sapendo cosa si dovrebbe fare, è decisamente difficile evitare la cosiddetta contaminazione incrociata in cucina (“cross contamination”). Non solo, tutte queste precauzioni fanno parte delle abitudini alimentari normali della popolazione?
La domanda non è oziosa. Negli Stati Uniti, si sta consumando la polemica ed un focolaio epidemico di salmonellosi (338 casi al 20 ottobre, con 135 ricoveri; si tratta di Salmonella del ceppo Heidelber, in una variante resistente a diversi antibiotici, quindi potenzialmente più aggressiva e resistente ai trattamenti, nei pochi casi che li richiedono) riconducibili alla Foster Farms, un’azienda con una lunga tradizione di avicoltura, una buona fama per il trattamento più umano dei polli, ma anche con una storia di focolai epidemici alle spalle.
Le autorità sanitarie USA hanno ricondotto questo focolaio ai polli dell’azienda (se i polli di tutte le aziende sono ogni tanto contaminati, quelli in questione devono esserlo molto di più); non hanno potuto richiedere il ritiro dal commercio la gran parte dei prodotti incriminati perché, legalmente, l’azienda avrebbe ragione. Posso venderti anche un pollo che è una coltura batterica di salmonelle, ma siccome cuocendolo la puoi eliminare la colpa è dei consumatori che o non cuociono bene oppure non sono in grado (vedi sopra) di evitare la contaminazione incrociata in cucina.
Le polemiche sono seguite perché, come credo si intuisca e come studi hanno confermato, quando c’è tanta Salmonella è difficile essere così bravi da evitare ogni contaminazione; qualcuno ha notato che perfino prodotti arrostiti dalla stessa Foster Farms sono risultati contaminati dopo la cottura, dimostrando che neppure loro erano in grado di renderli perfettamente sicuri (in questo caso il dettagliante li ha ritirati). Per ora la Foster Farms ha promesso alle autorità di cambiare le procedure (non sono stati forniti particolari dettagli).
Il caso è clamoroso, ma certamente non nuovo.
Nel 2009, 72 persone (34 ricoverati, 10 con la Sindrome Uremo Emolitica dovuta alla presenza di E.coli O157:H7, fortunatamente nessun morto) si ammalarono dopo aver consumato una pasta frolla refrigerata per i biscotti prodotta da Nestlé. L’azienda la considerava da consumarsi solo dopo la cottura, i consumatori spizzacavano anche la pasta frolla cruda. Da qualche parte in etichetta c’era scritto, in piccolo piccolo, da consumare previa cottura. Alla fine, davanti all’evidenza di un problema sanitario serio, Nestle richiamò il prodotto, immagino abbia introdotto misure più rigorose, e ha scritto più in grande di mangiare il prodotto solo dopo cottura.
Foster Farms non ha le tasche profonde di Nestle, non si è assicurata o teme di non vedersi risarcita, o forse ha solo una cultura diversa. Senza dubbio sul controllo di Salmonella, più facile da controllare che Campylobacter, si può fare molto, come si è fatto in Europa con successo, partendo dalle galline riproduttrici.
Certamente, e spero di riparlarne presto a proposito di campylobacter su Food Wars, c’è una questione di costi, che test rigorosissimi possono portare a livelli elevati, con quantità elevate di pollame che diventano non vendibili crude, come di richiami dal mercato. Migliorare la salute della popolazione riduce i costi, ma i benefici economici di meno malattie non arrivano nelle tasche dei produttori di pollame. Le procedure migliori incidono, divise su milioni di pezzi, poco, ma se i consumatori non si rendono conto che un prodotto è più sicuro di un altro si perde rispetto alla concorrenza meno attenta.
Indubbiamente, però, il problema della contaminazione incrociata esiste. La quasi totalità dei casi di salmonellosi negli Usa sono riconducibili a persone che mangiano polli crudi o li usano come lecca-lecca. Manca l’informazione, ed è comunque molto difficile da eseguire in cucina. In Italia sarebbe già tanto se si facesse un po’ di educazione contro la contaminazione incrociata.
Post scriptum relativo all’epatite A dai frutti di bosco: l’epidemia non è ancora del tutto domata, e il ritiro dal mercato è avvenuto ancora di recente. Evidentemente arrivare all’origine di questa contaminazione non è facile. Anche se l’Italia è di gran lunga la più colpita, il focolaio si è esteso a Irlanda e forse a Francia: forse mancano i mezzi o gli strumenti, o gli approcci giusti, o forse ci si perde nel sistema di rintracciabilità. Certamente quest’estate, quando vedevo i gelatai artigianali preparare gelati ai frutti di bosco usando (ovviamente) prodotti congelati, ma non cotti, oltre a dire ai miei di evitare, mi chiedevo: qualcuno gliel’ha detto che, senza perlomeno evidenze scritte di analisi negative, quella frutta va prima ridotta a marmellata cuocendola? Ad estate finita, con il problema ancora in corso, il Ministero della Salute ha raccomandato:
“Per chi impiega a livello di produzioni artigianali o di ristorazione frutti di bosco surgelati, ad esempio per frullati, preparazioni di frutta, guarnizioni di dolci, di yogurt o di gelati si raccomanda l’impiego solo previa cottura. Il trattamento termico sicuramente efficace è la bollitura dei frutti per almeno due minuti“.
Un po’tardi, ma almeno lo si è detto con chiarezza.