Vivere Rischiosamente

Su Food Wars ed altrove, parliamo spesso di rischio alimentare, cioè, intuitivamente, di qualcosa che, passando dagli alimenti, ci possa fare male.

Da un punto di vista tecnico, però, quei rischi teorici sono pericoli. C’è una possibilità teorica accertata – un pericolo – di far danni alla salute, ma ancora non sappiamo se e quanto spesso succederà, cioè che rischio c’è.

Bisogna condurre una vera e propria valutazione del rischio per passare da un pericolo che si è identificato (per esempio, l’epatite E di cui si parlava poco tempo fa qui e sul Corriere Salute) ad una stima del rischio.

Da manuale, la stima del rischio è una moltiplicazione, o perlomeno una combinazione, della probabilità che un pericolo diventi una realtà con la gravità di questo pericolo.

Sembra un ragionamento molto sensato: presenta un rischio più alto avere un attacco di gastroenterite quest’anno (molto probabile), magari da norovirus (un po’ meno probabile, ma una possibilità da contemplare) oppure quella di contrarre un tumore per l’esposizione a sostanze cancerogene presenti negli alimenti (decisamente improbabile)? Il tumore è molto più grave, anche se improbabile: il rischio potrebbe dunque risultare più alto.

In effetti, l’idea di mettere insieme gravità e probabilità è intuitiva; è una cosa che si fa, con metodi standardizzati (per esempio, i Disability Adjusted Life Years, o DALYs) ma non fa parte delle abituali valutazioni del rischio.

Di solito cerchiamo invece di stimare la probabilità che una persona media si ammali facendo calcoli complicati, e/o usando l’incidenza (il numero di nuovi casi) di una certa malattia nella popolazione. Per esempio, nel 2011 EFSA stimava un’incidenza reale di salmonellosi in Italia di 496 casi per 100.000 persone (che rapportato all’individuo risulta in una probabilità di 1 su 200 di ammalarsi di salmonellosi in un anno), e da questa stima si può fare un ragionamento di rischio.

Ma per ognuno di noi come individuo resta la domanda è un rischio grande o piccolo, almeno come probabilità?

Dipende ovviamente da come si guarda il numero.

Si può dire che, vivendo novant’anni, tenendo fissa l’incidenza e con diverse altre assunzioni, ho il 40% circa di probabilità di ammalarmi almeno una volta. E, in altri casi, per molte malattie legate agli alimenti, le probabilità sono decisamente più basse, inferiori ad una su un milione nell’arco dell’intera esistenza.

Quindi, se la probabilità di ammalarsi nel corso dell’intera vita sono inferiori ad una su un milione, possiamo stare tranquilli?

La risposta non è così semplice. Vero è, come singolo individuo, che, se il rischio di contrarre una malattia è uno su un milione, posso probabilmente ignorarlo nella mia vita quotidiana – altrimenti non vivrei più perché ci sono rischi molto più probabili e pressanti (se pensate all’incidenza di tanti tumori o malattie cardiovascolari….).

Dall’altra parte, possiamo vedere il tutto anche come una lotteria all’inverso. Possiamo essere quasi certi di non essere noi vincere il primo premio in una lotteria nazionale, ma siamo del tutto certi che c’è qualcuno che vincerà.

In altre parole, quando la probabilità è circa una su un milione, ci possiamo aspettare che sei italiani (quasi certamente non noi)  contraggano questa malattia; qualcuno, da qualche parte, starà male (ho capito questo concetto in maniera pregnante quando mi sono trovato a fare esperienza di un effetto avverso di un intervento chirurgico che “stia tranquillo, accade in meno dell’1% dei casi”; quando capita a te, che la probabilità fosse bassa ti importa poco).

Anche per questo, le autorità, e anche i media, per certi versi, si interessano dei rischi anche poco probabili: per quasi tutti l‘epatite A legata ai frutti di bosco è solo una notizia, una possibilità teorica, per alcuni una realtà.

Non esisterebbe una comunità umana se non ci preoccupassimo dei più sfortunati.

Ma vediamo un altro aspetto.

Quando per ridurre drasticamente un rischio bastano piccoli accorgimenti (cuocere bene la carne, meglio controllando con un termometro specifico, in vendita tra l’altro presso la nota catena svedese di mobili e accessori), ci sembra più che giusto adottarli.

Però mentre tutti hanno paura (come ampiamente studiato e documentato) dei rischi poco familiari (vedi OGM) o di nomi inquietanti (Listeriosi), è difficile convincere qualcuno che un’attività fatta di frequente (per esempio, mangiare hamburger poco cotti) e che tradizionalmente non viene vista con sospetto presenta un qualche rischio.

Quando si parla di un rischio legato ad un alimento o ad una qualsiasi attività, spesso arriva la risposta, che sia un commento su Facebook, che sia una frase di risposta a tavola, nelle varianti

ma ho mangiato prodotti scaduti tutta la vita e non sono mai stato male 

o

eppure l’ho sempre dato ai miei nipotini neonati e stanno benissimo (non va bene, ci possono essere spore di botulino che l’intestino da un anno in su gestisce, prima, a volte, no).

Si tratta di una risposta che ha una sua razionale base logica.

Infatti, anche secondo la concezione statistica bayesiana, è corretto modificare la propria stima di un rischio sulla base dell’esperienza: la prima volta, dopo aver parlato con qualcuno che mi ha spaventato, mangio con qualche timore germogli crudi (possono portare patogeni e non si è trovato il modo di renderli sicuri, salvo che con la cottura). Poi non mi succede nulla e, ad ogni nuova prova, pian piano divento più sicuro.

E’ il meccanismo con cui gli esseri umani hanno conosciuto e conquistato il mondo.

Più precisamente, spaventati ma non convinti al punto da farci desistere, pensiamo che sia probabile che ci ammaliamo seriamente dopo aver mangiato i germogli. In realtà, pur correndo un rischio non inesistente e potenzialmente serio, è molto probabile che non ci ammaliamo; tuttavia, la nostra stima di ammalarci se il nostro amico ha ragione è una quasi certezza, e questo ci porta ad una previsione del tutto sballata (invece l’evento resta poco probabile). Ogni volta che ci va bene, siamo sempre più convinti che i fatti ci stiano dando ragione.

Non ci rendiamo conto che, proprio per aver sopravvalutato il rischio inizialmente, il nostro campione di esperienze non è informativo rispetto al rischio reale. Per capirne qualcosa di più dovremmo fare altri calcoli o vedere qual’è l’esperienza della popolazione.

Dobbiamo renderci anche conto del concatenarsi degli eventi, e come questo cambi le probabilità che qualcosa accada. Per esempio, una volta che contaminiamo l’insalata con carne di pollo cruda, non lavandoci le mani, non succederà niente. Riuscite ad apparecchiare e mangiare senza rompere neanche un piatto o bicchiere stasera? Molto probabilmente sì. Siete altrettanto convinti che nei prossimi dieci anni le cose vi andranno nello stesso modo, e non avrete rotto neanche un bicchiere?

Insomma, il “non mi è mai capitato”, quando contrasta con i dati scientifici, va interpretato con molta, molta cautela.

Quando conquistavamo la savana, qualche perdita per un rischio sottostimato ci poteva anche stare; oggi ci piace meno.

E, in ogni caso, è sempre antipatico quando capita di essere il caso su mille.

@lucabuk

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