Epatite A: quale ruolo per gli scienziati?

Come credo sia chiaro a chi segue Prometeus, l’eco mediatico di una notizia, specie quando la scienza è coinvolta, molto spesso non è spesso proporzionale alla sua importanza puramente tecnica, o alla sua rilevanza per la salute e la vita dei cittadini.

Ho parlato tempo fa dell’epidemia di epatite A e della relativa nota ministeriale. Poi non ho aggiunto altro, non solo per una forzata vacanza da Food Wars, ma proprio perché di notizie non ne sono state diffuse da media ed autorità, fino a due giorni fa. Il silenzio è stato rotto pochi giorni fa da una pubblicazione scientifica comparsa su Eurosurveillance, che riporta i dati aggiornati al 31 maggio (è passato più di un mese, ma accontentiamoci), e poi da una nota ministeriale.

La lettura è  interessante. Vediamo i fatti principali:

  • dal 1 gennaio al 31 maggio, in Italia, sono stati riportati alle autorità sanitarie 352 casi di epatite A, 70% in più rispetto al 2012, 54% al 2011, e 34% rispetto al 2010, al 30 giugno erano diventati 448;

  • a fine maggio, i casi, oltre il 55%, sono riferiti alle regioni del Nord, Trento e Bolzano, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, e Veneto, le regioni in cui l’epatite A sembrava sorpassata, anche se c’è un incremento anche in Puglia;

  • al 31 maggio, erano registrati già 159 ricoveri in ospedale, ma per fortuna nessuna epatite fulminante o decessi;

  • solo dopo la segnalazione proveniente dal Nord Europa su un focolaio (che poi, ad oggi, pare non collegato), a fine Aprile 2013, è stato inserito un quesito relativo al consumo di frutti di bosco congelati. Da allora 37 dei 46  (80%) che hanno risposto, hanno indicato il consumo di frutti di bosco congelati;

  • dei 38 casi individuati nelle province di Trento e Bolzano, l’unico fattore in comune è stata il consumo di frutto di bosco misti o torte con frutti di bosco. Una famiglia veneta, che si è ammalata, ha fornito un campione di frutti di bosco congelati, da cui è stato isolato il virus dell’epatite A, confermando il collegamento;

  • in cinque casi del Trentino il sequenziamento del virus ha permesso di stabilire che la sequenza è la stessa degli isolati ottenuti da tedeschi e olandesi in vacanza in Trentino (la GenBank accession non è ancora visibile), ma pare diversa da quelli dell’epidemia del Nord Europea e degli USA.

L’andamento dei casi dimostra che il picco, finora è stato a maggio.

Andamento dei casi di epatite A nel periodo gennaio-maggio, dal 2010 al 2013 (fonte: Eurosurveillance).

Andamento dei casi di epatite A nel periodo gennaio-maggio, dal 2010 al 2013 (fonte: Eurosurveillance).

Quindi, riassumendo, abbiamo a che fare con un focolaio di dimensioni considerevoli, più grande di quello nordico e di quello USA,  il più grande di epatite A in Italia dal 2004; si concentra al Nord; l’impatto sanitario è già notevole, finora – ma siamo ancora in corsa, ahimè – non tragico; i frutti di bosco congelati sono quasi certamente il fattore principale.

Il grado di comunanza tra altri focolai epidemici è ancora di stabilire perché pochi sequenziamenti sono stati fatti in Italia (Nord Europa ed USA hanno in comune per ora solo il genotipo 1B), e, dai controlli successivi, sono stati individuati almeno quattro prodotti potenzialmente implicati. In Italia non sappiamo quale sia il frutto da sospettare; nel Nord Europa, i dati suggeriscono le fragole congelate (un ben noto classico, con buona pace di chi grida alla novità);  negli USA, melograno proveniente dalla Turchia.

I prodotti finora sospettati sono di origine italiana, ma con frutti di bosco di origine europea (tra cui Romania, Polonia e Bulgaria) ed extra-UE (Ucraina, Canada, Serbia), oltre ad un insalata ungherese contaminata di cui non si sa se abbia un qualche ruolo.

Visti i fatti, a che punto siamo?

Partiamo dalla prospettiva. I tassi di epatite A in Italia ancora negli anni ’90 erano molto alti (non cent’anni fa), e sono scesi di molto solo da allora. Inoltre, episodi epidemici importanti si sono registrati negli anni, come ricordano i ricercatori dell’ISS, compresa l’epidemia pugliese 1996-1997, con probabilmente 11.000 casi, associati a molluschi crudi (in Puglia fu poi introdotta la vaccinazione universale dei bambini). O quella più recente, della prima metà del 2004, in Campania, con oltre 800 casi, sempre con la stessa origine. Nel 2002, invece, era stato un dipendente di una gastronomia a contagiare 26 persone, a Bari. E’anche vero che le vecchie generazioni erano più spesso esposte ai virus, e le generazioni più giovani non sono quindi protette, e le epidemie più facili.

Se non siete del partito che “era meglio quando c’era il vaiolo, almeno c’era più selezione naturale” e che nulla di nuovo sotto il sole quando si ammala o muore qualcuno, la risposta non può che essere miglior prevenzione e miglior controllo dei focolai che si presentano. Come nel resto del mondo avanzato.

Torniamo all’epidemia in corso. I ricercatori dell’ISS concludono, in modo inappuntabile, ma che fa sempre un po’rabbrividire:

Despite the great efforts made in the detection of positive food consignments and recall of those suspected or found positive, more cases are expected in the next weeks, due to the long incubation period of HAV (28–30 days; range: 15–50 days), the notification delay, and the long shelf life that frozen berries have.

Cioè che non è ancora finita (infatti da allora ci sono stati altri 96 casi), e quanto grande e grave sia quanto è successo veramente lo sapremo più avanti, quando i ricercatori dell’ISS, che stanno facendo un grande lavoro, avranno il tempo per fare un’altra pubblicazione scientifica.

Al di là della preparazione, della rapidità di risposta, dei mezzi tecnici, ci si domanda se nel frattempo si potrebbe fare qualcosa d’altro. Come dicono i ricercatori, si possono richiamare dal mercato i prodotti ed evitare quindi che quelli giacenti nei freezer di casa siano consumati. Come nella gran parte dei Paesi europei, e come richiederebbe la legislazione comunitaria, si dovrebbero informare tutti i consumatori italiani dei prodotti contaminati e già segnalati a livello comunitario:

finalmente, il 9 luglio è stata pubblicata la lista dei prodotti finora incriminati, insieme alla notizia che i casi al 30 giugno sono diventati 448.

Oltre i richiami, i ricercatori segnalano ai lettori nell’articolo che:

.. advised the population through the website of the Ministry of Health regarding the use of the leftover frozen mixed berries

Infatti, dare indicazioni precise ai consumatori qualche risultato lo può dare. Se si fa una ricerca sul sito del Ministero, seguendo il consiglio dell’articolo, si arriva a questa pagina, dove cliccando al punto 10, si trova una frasetta:

considerate le evidenze ad oggi disponibili, si raccomanda di impiegare i frutti di bosco congelati acquistati per preparazioni sottoposte a cottura, come ad esempio le salse e le marmellate.

Tradotto in italiano corrente, ad oggi, vuol dire che se avete frutti di bosco congelati (o li comprate), non consumateli crudi e cuoceteli anzi molto a fondo, perché solo così si ha la certezza di inattivare il virus. Se doveva avere una qualche efficacia pratica, questo messaggio, probabilmente andava diffuso in altro modo.

Ma del resto i media non ne hanno parlato, oltre a Ilfattoalimentare, con l’eccezione di Radio 3 Scienza (in cui purtroppo un altrimenti valido ed autorevole esperto, per una svista, ha detto frettolosamente che il lavaggio con bicarbonato è sufficiente ad inattivare il virus: i dati che ho potuto esaminare non lo confermano, anzi, quindi cottura completa finché la situazione non è risolta).

Però perché i media non ne parlano? Perché, anche, gli esperti e i comunicatori delle istituzioni non ne parlano.

Si è parlato in tempi recenti dell’importanza dell’impegno anche personale a diffondere i risultati di studi e il metodo scientifico. Come dimostra il caso Vannoni e il ritorno ad un’informazione più corretta dei giorni scorsi, gli esperti hanno un ruolo chiave. Invece, in campo sanitario, particolarmente in quello alimentare, continua a prevalere una tradizione paternalistica: il cittadino non ha bisogno di sapere, perché ci pensiamo noi, altrimenti si agita, anzi bisogna rassicurarlo comunque (di questo ho parlato anche qui). Senza neanche pensare al costo di sofferenza che porta questo atteggiamento a chi poteva evitare di ammalarsi se debitamente informato, si viene meno al dovere di chi fa scienza di contrastare le bufale e, invece, di riportare i fatti.

Se la situazione epidemiologica dell’epatite A dell’Italia sta diventando quella di un paese sviluppato, dobbiamo accettare che questo richiede una trasparenza da paese sviluppato. Il che comporta la rottura di equilibri, di schemi, per adottare nuovi comportamenti, cosa non sempre facile e sempre scomoda, ma molto più facile per chi non ha ruoli amministrativi.

In tutti gli ambiti della scienza italiana, ma in particolare in quello della sicurezza alimentare, credo sia ora di cambiare musica.

@lucabuk

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