L’impalcatura che non si vede

Compriamo spesso prodotti con il marchio di una catena della grande distribuzione organizzata (GDO). Ci sono molti buoni motivi per farlo (e anche per non farlo, naturalmente). Come è facile immaginare, la GDO non possiede propri stabilimenti, ma prende accordi con industrie che producono biscotti, passate di pomodoro, panettoni, yogurt perché producano con il marchio del supermercato. Si dice Private Label.

Ormai molti anni fa, quando questa idea si diffuse su larga scala, si pose il problema di verificare la qualità dei processi produttivi dei fornitori dai parte dei supermercati, specie sulla Private Label. I supermercati non vogliono fare brutte figure per colpa di altri, ma il problema riguarda naturalmente un po’ tutti i fornitori dell’industria e distribuzione alimentare..

Se produco crostate, come faccio a sapere che il mio fornitore di marmellate lavora bene? Posso fare le analisi naturalmente. Però non tutti i lotti di prodotto sono spesso analizzabili per tutti i parametri  rilevanti. E quali parametri analizzare? Come insegna l’inattesa esperienza della carne di cavallo, spesso non si sa a priori; non ci sono i metodi analitici; i costi sono esorbitanti; il campione spesso non è rappresentativo. Non resta che andare ad ispezionare il fornitore. Sono così nate le cosiddette ispezioni di seconda parte.

Ancora oggi le ispezioni da parte della GDO, nella mia esperienza professionale, sono le più temute ed efficaci nel modificare pratiche aziendali discutibili od obsolete, almeno per quanto riguarda le Private Label. Le catene inglesi sono le più attente, insieme ad alcune catene italiane che pretendono gli standard più elevati.

Poiché però queste ispezioni sono onerose per tutte le parti coinvolte, sono stati introdotti degli standard di certificazione volontaria. L’idea è che la singola catena o la singola impresa non abbia bisogno di mandare un ispettore, ma si possa fidare del lavoro fatto da un ispettore terzo (di terza parte) che ha verificato che l’azienda produttrice segue uno standard di sicurezza alimentare molto elevato.

Gli standard abbondano: i più noti sono il britannico British Retail Consortium, o BRC, e il franco-tedesco-italiano, International Food Standard (IFS). C’è anche uno standard ISO (il 22.000) e superschemi, come il GFSI.

Sorprendentemente anche persone che si occupano da anni di alimentare ignorano la profonda influenza anche in Italia di questi standard.

Ovviamente, il successo di questi programmi di audit è oggetto di appassionate discussioni in mancanza di dati certi sulla riduzione dei problemi di sicurezza alimentare. Una delle critiche è relativo al conflitto di interesse: gli enti di certificazione sono scelti e pagati dall’azienda che deve essere certificata ed c’è chi ne ricava – senza prove definitive – che chi è troppo severo si ritrova senza clienti.

Per questo va applaudita – in linea di principio se non nei casi concreti che non conosco – la decisione di IFS di sospendere due enti di certificazione (tra cui la filiale austriaca del gigante SGS) perché non rispettavano le condizioni del programma. Solo se c’è un controllo sugli enti di certificazione il sistema funziona.

Di fatto, va riconosciuto che le ispezioni di seconda parte – dei supermercati – continuano perché le certificazioni sono ritenute ormai un requisito minimo; a volte le ispezioni si focalizzano sul materiale cartaceo e non su cosa accade davvero.

Inoltre, negli USA e in parte in Germania, dove il dibattito sulla sicurezza alimentare è più avanzato che da noi, ci si è scandalizzati di scoprire che aziende che hanno causato grossi episodi epidemici erano regolarmente sottoposte ad audit di terza parte, con risultati lusinghieri.

Quindi queste certificazioni non contano nulla? E al consumatore cosa importa?

La realtà è che la legge e i controlli ufficiali – per mille motivi – impongono solo principi ed un livello minimo a tutti. Al contrario, questi standard pretendono, per esempio, che tutti i vetri all’interno di uno stabilimento siano tenuti rigidamente sotto controllo (perché non finiscano nella marmellata), o che si controllino rigidamente i gioielli usati dal personale.

Non solo, poiché gli ispettori non sono del posto (come i valorosi ispettori delle ASL), portano esperienze diverse e non hanno solo l’esempio dell’azienda locale che vedono, e di come essa applica le norme (il requisito lavare le mani vuol dire che si è messo il cartello oppure si deve osservare non visti che gli operai si lavino le mani tutte le volte che entrano in produzione?). Di più, gli standard volontari si aggiornano continuamente perché la GDO non vuole problemi e scandali, mentre le leggi nascono da compromessi non sempre ideali, o sono draconiane solo a cose fatte.

Vogliamo che tutti siano, per legge, al livello massimo possibile come se tutti fossero certificati? A mio giudizio dobbiamo accettare di vivere in un mondo complesso, dove spesso pretendere il meglio finisce per impedire il buono. Volvo iniziò ad introdurre sistemi di sicurezza avanzati sulle sue macchine che poi sono diventati standard, e poi obbligatori.

Anche se ripeto un concetto di moda, chiediamo come cittadini qualcosa di più raggiungibile: la trasparenza. Se gli errori si pagano con la cattiva pubblicità, e con cali di vendite, i requisiti diventano più stringenti. Se fare certificazioni leggere è un rischio di fare figuracce ed essere buttati fuori, gli incentivi cambiano. E questo fa bene a tutti.

@lucabuk

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