Animalista e Animalista
Quanto occorso allo stabulario dell’Università di Milano e al prof. Ignazio Marino (lettera fantascientifica inclusa) credo abbia rappresentato un indubbio danno d’immagine per gli animalisti nostrani e abbia precluso l’instaurazione di un qualsiasi tipo di dialogo costruttivo tra di essi e il mondo scientifico.
Il tema della Sperimentazione Animale (SA) è però un tema troppo importante per essere liquidato con un “sono brutti e cattivi” rivolto all’indirizzo di chi si macchia di azioni violente o illegali e soprattutto dettate da motivazioni quantomeno risibili (per non parlare degli esiti). Mi sono quindi messo personalmente “alla caccia di un animalista”, mi si perdoni l’allegoria, con il quale avesse senso parlare, perché volevo comunque capire, ma anche tentare di ridare dignità ad un dibattito che altrimenti si sarebbe limitato a reciproche, quanto sterili, invettive.
Ringrazio Serena per aver accolto il mio invito (dopo una semi-infinita serie di no e porte in faccia di altri), la ringrazio sia perché mi ha permesso di capire meglio la galassia animalista, sia perché si è resa disponibile a mettersi in gioco qui, in un posto che comunque crede che la SA sia (e sia stata) importante e in molti casi ancora non sostituibile.
Come dice il nome stesso della rubrica, è mia ospite. Ricordatevelo.
È il caso di dirlo: gli “animalisti” godono di una pessima, pessima nomea. Il fatto che tale fama sia spesso meritata, però, non basta di per sé a squalificare le rivendicazioni di cui essi si fanno portatori e che toccano in maniera crescente la sensibilità di parte sempre più ampia della popolazione, né può essere fatto valere contro quegli animalisti che si rivelano in tutto e per tutto persone sensate.
Forse qualche biotecnologo sorriderà di fronte al solo accostamento del lemma “animalista” a “persona sensata”; così avvezzi alla serietà del lavoro tecnico, studenti e ricercatori tendono a vedere i sostenitori dei diritti animali come inguaribili fricchettoni (nel migliore dei casi), o come pericolosi terroristi (nel peggiore). Poiché non faccio uso di saponette all’aloe vera né amo particolarmente le fragranze degli incensi dei mercatini orientali, ne desumo che io stessa, che addirittura scrivo su un ignobile blog antispecista, potrei essere sbrigativamente catalogata alla voce “pericolosa terrorista”. Ma forse qualcuno di voi sarà così gentile da sospendere il giudizio, e dubitare per un attimo della validità di questo rudimentale schema interpretativo.
La violenza non è solo quella di facinorosi e cosiddetti estremisti: quando un qualsiasi gruppo di persone è visto come un tutto omologato e compatto, prende immancabilmente il sopravvento un pensiero stereotipato e propagandistico.
Questo, credo, sia sempre ed esclusivamente un male. Come scriveva il filosofo Theodor Adorno, l’indifferenziato, ciò che fa di ogni erba un fascio, incarna quella condizione dello spirito rozzo che il sapere dovrebbe superare o addirittura cercare di eliminare negli uomini. Gli “animalisti” sono troppo antipatici per meritare questo favore? Può darsi. O forse può darsi di no.
“Animalista” è un termine ombrello, ovvero una parola che copre una serie di generici comportamenti in favore degli animali che sono in relazione più o meno stretta col termine stesso, ma non possono essere considerati sinonimi. Semplificando (molto), potremmo distinguere almeno tre correnti “animaliste” principali: la zoofilia, il protezionismo (o welfarismo) e il liberazionismo; ognuno di questi filoni, a sua volta, contempla al suo interno notevoli sfumature.
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Per zoofilia si intende, molto banalmente, l’amore premuroso per gli animali, che solitamente riguarda quelle specie che ci sono più vicine: i pets. Uno zoofilo può commuoversi fino alle lacrime davanti alla fotografia di un gattino e nel frattempo mangiare vitelli e maiali, animali altrettanto intelligenti e sensibili, senza percepire alcuna contraddizione in questo.
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Il protezionismo è una forma di animalismo sociale che si impegna, in una logica sostanzialmente riformista, a rinegoziare le condizioni di vita degli animali impiegati nelle attività umane (alimentazione, vestiario, ricerca, divertimenti, ecc.); esso si avvale di campagne informative e di sensibilizzazione per portare la questione del benessere animale al centro dell’agenda politica.
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Il liberazionismo, di cui la prospettiva antispecista fa parte, ha una forte impronta politica ed è radicalmente abolizionista: nessun animale, umano o non umano, dovrebbe essere ridotto a merce o a oggetto di sfruttamento. In questa chiave, l’elaborazione teorica antispecista degli ultimi anni ha individuato robusti nessi tra oppressione umana e oppressione animale, muovendosi nella direzione di un’emancipazione da ogni forma di dominio, inter e intra-specifico.
Ma come si pongono tutte queste posizioni nei confronti della sperimentazione animale?
Innanzitutto è importante sottolineare che esistono più modi di opporsi alla SA: vi è chi la contesta da un punto di vista scientifico (in gergo si parla di AVS: “antivivisezionismo scientifico”) e chi invece lo fa sulla base di considerazioni etiche (AVE: “antivivisezionismo etico”), quando non prettamente affettive (AVSe: “antivivisezionismo sentimentale”, nato storicamente dall’orrore di Marie-Françoise Martin e delle sue figlie verso le pratiche sperimentali del marito e padre Claude Bernard, che sottopose a vivisezione – pare – persino il cane di famiglia).
Circostanza puntualmente ignorata dai non animalisti: sebbene non pochi attivisti siano portati a fare un pasticcio di tutte e tre queste posizioni assieme, AVS e AVE tendono a ritenere inefficaci se non addirittura controproducenti i rispettivi argomenti, e a guardarsi con ben poca simpatia.
Ciò detto, possiamo facilmente intuire che, mentre un antispecista si opporrà in toto alla SA esclusivamente o soprattutto sotto il profilo etico, un protezionista potrebbe limitarsi a fare pressioni sul governo per una sua maggiore regolamentazione o per controlli più severi o ancora per arrivare alla sua lenta e graduale abolizione; uno zoofilo, invece, potrà tranquillamente ammettere i test su ratti e conigli, ma sfilare in corteo contro quelli sui beagle, o magari combattere tutti i test su animali, ma non mettere minimamente in discussione lo stato di assoggettamento in cui vivono milioni di animali cosiddetti da reddito.
Ora che abbiamo dato un nome alle diverse “anime” dell’animalismo, sarà forse possibile comprendere meglio anche alcuni eventi di attualità che spesso vengono letti con una certa superficialità (nel senso di una lettura che non va “al fondo delle cose”): ma di questo discuteremo – se dio vuole – nel prossimo articolo.