Eccellenze? Sì, grazie!

Qualche settimana fa, avete letto dei problemi dell’università italiana nel settore biotech. Secondo la classifica dell’Università di Shangai, l’Università di Milano, la migliore in questa graduatoria, si colloca oltre il centesimo posto nel ranking delle università migliori al mondo.

Tutto vero.

Queste classifiche risentono però di un forte bias, non misurando solamente la qualità e l’impatto della ricerca, ma anche la qualità della didattica e dei ricercatori, misurati come la presenza di premi Nobel nell’istituzione o l’aver formato futuri premi Nobel.

Il sistema italiano “vanta”, cioè, problemi di natura strutturale che, almeno per i prossimi venti anni, non ci permetteranno di raggiungere posizioni nemmeno dignitose in classifiche di questo tipo, poiché dovremmo rivedere completamente l’organizzazione delle Università, che, come sottolineava il Ministro Profumo alla presentazione della strategia Horizon 2020 Italia la scorsa settimana, palesano carenze di management fortemente radicate.

Guardando però i dati disaggregati, cioè la mera abilità di produrre ricerca di alta qualità e con un impatto applicativo, l’Italia si mostra capace di generare ottima ricerca.

Proprio ieri ad esempio il Parco Tecnologico Padano di lodi, insieme al CRA di Roma e all’IGA di Udine, ha pubblicato il sequenziamento del genoma del pesco sulla prestigiosa rivista Nature Genetics, raggiungendo quota 11 genomi (tra cui quello del suino, del bovino, del melo, della vite…).

Analogamente, 93 ricercatori italiani hanno vinto un grant ERC (European Research Council), i finanziamenti all’eccellenza scientifica da parte della Commissione Europea.

Da qui bisogna partire. Dalla capacità dei ricercatori italiani di sviluppare network internazionali che siano in grado di creare una massa critica sufficiente per fare ricerca eccellente. Massa critica in termini di risorse umane, competenze, strumentazioni. Quello in cui spesso in Italia siamo carenti, cioè la capacità di mettersi insieme per perseguire un fine condiviso.

Troppo spesso le logiche di parte alimentano le Università italiane, dove spesso non si riesce nemmeno a fare sistema all’interno di uno stesso dipartimento, figurarsi fra Università o centri di ricerca diversi, con principal investigators magari in competizione a livello nazionale per una abilitazione nello stesso settore disciplinare.

In Francia, il governo Hollande, in un libro bianco sull’Università, ha recentemente proposto di ”passare da un modello di eccellenza attuato attraverso la competizione ad un modello di performance basato sulla cooperazione”.

In Italia un modello competitivo di eccellenza nella ricerca non è mai esistito, di fatto. Dobbiamo quindi riuscire ad instaurare la necessità di cooperazione come fondamento culturale di una nuova politica di ricerca basata sulla qualità e sul cosiddetto capacity buildingcioè la capacità di creare un ambiente che permetta al ricercatore di esprimere il suo massimo potenziale, sia in termini di accesso alle infrastrutture che alle competenze.

Nel futuro governo sarà necessario valorizzare le eccellenze della ricerca italiana, dando loro visibilità, mettendole nelle condizioni di avere una leadership nella definizione delle priorità tematiche di finanziamento e svolgendo un ruolo di volano nei confronti delle altre realtà universitarie e non.

L’Europa ha identificato nella politica della smart specialisation l’opportunità per una allocazione delle risorse congrua e bilanciata sulla base delle priorità e delle eccellenze regionali e nazionali. Evitiamo di ricostruire da zero strutture e potenzialità, dimenticando come i centri di ricerca attuali, messi nelle condizioni politiche di dare il massimo, sono spesso già in grado di collaborare alla pari, ed eventualmente competere, coi più importanti attori della ricerca mondiale.

@s_maccaferri

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