Il cortocircuito tra scienza e politica
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in tutto il mondo ogni anno muoiono oltre 8 milioni di bambini fra zero e cinque anni di età. Il 29% di queste morti sono imputabili a malattie per le quali un vaccino esiste, ed una vaccinazione avrebbe potuto impedirne il decesso. Il ruolo dei vaccini nell’eradicazione di patologie come la polio è stato cruciale per l’intera società. Numerose sono le pubblicazioni che valutano il rapporto costi-benefici a favore delle vaccinazioni per diversi virus. Ad esempio, sulla ottima rivista JAMA Pediatrics, sono state pubblicate analisi sull’impatto economico delle vaccinazioni eptavalenti negli USA fino al 2005. E’ stato dimostrato che tale vaccinazione comporti un risparmio diretto di quasi 10 miliardi di dollari, ed indiretto di oltre 40, per il governo statunitense.
Leggere quindi che, ancora oggi, si discuta della possibilità di abolire l’obbligatorietà della vaccinazione pediatrica non tanto per presa coscienza diffusa della loro importanza, ma piuttosto per una loro presunta dannosità e inutilità, mette in seria discussione il rapporto che (dovrebbe) esiste tra scienza e politica.
Il problema che affrontiamo è molto più ampio rispetto al solo rapporto che uno dei principali partiti italiani, il Movimento 5 Stelle, ha con la scienza, e non solo con il tema delle vaccinazioni. È infatti l’annoso problema del ruolo del ricercatore, e della comunità scientifica più in generale, nell’indirizzare le politiche di un paese, rendendo fruibili le conoscenze scientifiche alla popolazione e ai policy-makers.
Si chiamano evidence-based policies, politiche basate su evidenze scientifiche, e sono uno strumento necessario per dare la possibilità ai governi di sviluppare provvedimenti legislativi realmente efficaci perché basati su concreti risultati scientifici e non solo su basi emotive o socio-economico-antropologiche.
Molto interessante è, a questo scopo, una intervista di quest’inverno alla prof. Anne Glover, nominata Chief Scientific Advisor della Commissione Europea. Glover porta quello degli OGM come caso paradigmatico. Essi, pur non avendo mostrato nessun impatto o controindicazione sulla salute umana, animale e ambientale in oltre 15 anni di utilizzo, sono comunque oggetto di politiche basate sull’irrazionale emotività del cittadino più che su un serio risk assessment.
I ricercatori debbono assumere un ruolo sempre più forte – perché riconosciuto – nelle politiche nazionali, perché sui temi della salute pubblica, dell’agricoltura, dell’energia e dell’ambiente le evidenze sperimentali debbono essere comunicate, dibattute, comprese dai cittadini e tradotte dal legislatore in seri provvedimenti di legge per far crescere il paese.
ANBI ha da sempre a cuore il tema del rapporto fra scienza e società, fin da quando nel biennio 2004-2006 coordinò il progetto europeo Biopop, perché convinti dell’importanza del ruolo del ricercatore come facilitatore e fornitore di informazioni in una discussione scientifica fra pari.
È quindi fondamentale che la scienza svolga il proprio ruolo fino in fondo, informando puntualmente, ed in maniera chiara e comprensibile i cittadini. Al tempo stesso dobbiamo però, come paese, anche dotarci di un modello di policy-making rigoroso, che impedisca di fatto una manipolazione culturale da parte di gruppi di interesse che nulla hanno a che vedere con il mondo scientifico né nei contenuti né nel metodo. Non possiamo più permetterci anni di – costosi – dibattiti politici su proposte scientificamente irricevibili, poiché superate e sconfessate dall’avanzamento scientifico e tecnologico.