Università e fuoricorso: abbiamo un problema (in più)

Leggendo L’Espresso, ieri mattina, mi sono trovato davanti ad un paginone sull’Università. Cosa tendenzialmente buona, visto che il tema del rilancio del nostro sistema universitario non ha trovato ancora adeguata collocazione nell’agenda del governo Renzi. Ad una vista più attenta, però, ecco il classico titolo enfatico e strappa-applausi

“Ministero, paradossale guerra ai fuori corso”.

La prima domanda che mi pongo è: cosa sarà mai successo di così grave da scatenare le ire dell’opinione pubblica? Presto detto, si parla solamente di soldi. Annoso problema dell’Università italiana, i soldi che mancano, e che sono sempre troppo pochi indipendentemente da come essi vengano spesi negli atenei, virtuosi o meno.

Il problema che viene ravvisato è, questa volta, un nuovo provvedimento con cui il Ministero dell’Istruzione, Universita e Ricerca ha deciso di usare il numero di fuoricorso come fattore negativo sulla distribuzione dei fondi agli atenei.

Del tema dei fuoricorso ne avevo già scritto due anni fa, quando un report del Consiglio Universitario Nazionale aveva mostrato chiaramente il knowledge divide del nostro paese.

Il numero degli iscritti alle università sta calando sensibilmente di anno in anno e, nel contempo, il 34% degli iscritti sono fuoricorso. Di questi, ben il 20% sono totalmente inattivi, studenti di fatto che contano nelle statistiche degli atenei per “fare numero”, ma che al tempo stesso rallentano come una zavorra insostenibile la produttività del sistema universitario nazionale.

Dove sono i fuoricorso? Negli atenei più grandi, verrebbe da dire. Invece no, seguendo una logica contro deduttiva ai primi posti della classifica al rovescio vi sono piccoli atenei come Cagliari, Catania, Potenza, il politecnico di Bari, e le università del Sannio e della Calabria. Che siano tutti atenei del Sud non sembra di rilievo, lo è piuttosto il fatto che che tali atenei siano tutti oltre la 40esima posizione (sui 68 complessivi) nella classifica del Sole 24 Ore. Non esistono graduatorie univoche accettate universalmente, ma non è diverso il responso della VQR, per quanto esso sia solo riferita alla ricerca: tutti questi atenei hanno difficoltà evidenti.

Ecco quindi perché viene da sgranare gli occhi ogni qualvolta si legge articoli così populisti e mal argomentati come quello de l’Espresso.

Paradossale non è che il Ministero cerchi di penalizzare gli atenei non virtuosi, quelli con un peggiore abbandono universitario o quelli con un numero di fuoricorso più alto. Paradossale è pensare di non intervenire in maniera strutturale sul problema.

E qui veniamo alle dolenti note. Il provvedimento ministeriale, che di per sé è a mio avviso corretto nel principio, ha due criticità.

La prima: è estemporaneo. Non si può pensare di usare i fuoricorso come criterio negativo di distribuzione dei fondi, senza usare incentivazioni premiali verso quegli atenei che adottano meccanismi limitativi nei confronti del fenomeno del fuoricorso, dai criteri di merito nel diritto allo studio, a servizi a favore degli studenti in difficoltà, a infrastrutture che permettano allo studente una piena realizzazione. Inoltre, non tiene conto di eventuali politiche di supporto e facilitazione alla mobilità in uscita con programmi Erasmus+, placement e alternanza scuola lavoro, di utilità indiscutibile.

La seconda: siamo nel paese dei furbetti. E allora già si inizia a parlare di aumenti alle tasse universitarie e di esami agevolati de facto per rendere la vita semplice ai fuoricorso.

Anche se ormai tendo a ripetermi all’infinito (ne avevo già accennato qui): l’Italia, prima ancora di leggi, ha bisogno di manager capaci. Attualmente, l’università italiana, dagli atenei ai ministeri, ha troppo spesso lamentato problemi di liquidità, quando il problema principale è quello di saper governare la macchina amministrativa in maniera brillante, creativa e lungimirante.

Chi vorrà cogliere per primo questa sfida?

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