Esiste una politica per l’Università e la Ricerca nel governo Renzi?
A questa domanda, fino a pochi giorni fa, non era possibile dare una risposta. Con tutta la simpatia e fiducia politica fino ad ora esprimibile nei confronti del governo Renzi, la parola ricerca è stata fino ad ora totalmente assente dall’agenda politica renziana, incentrata sulle misure economiche ed istituzionali volte a ri-creare un clima di sviluppo per il paese. Ma può esistere sviluppo, anche economico e sociale, senza una reale politica di ricerca?
Lo scorso primo aprile – e non dovrebbe essere uno scherzo visto che potete trovare il resoconto sul sito del Senato – il ministro Stefania Giannini è intervenuto alla VII Commissione Permanente del Senato (Istruzione Pubblica e Beni Culturali) per delineare il programma del suo Ministero.
I punti di maggiore attenzione affrontati dal ministro Giannini sono stati sulla programmazione e organizzazione dell’Università. Un tema cruciale, poiché parte da una analisi correttissima, cioè che è necessario superare la cronica mancanza di programmazione del sistema universitario, troppo spesso bloccato su logiche di breve e brevissimo termine.
Il ministro ha posto un forte accento sulla semplificazione normativa e finanziaria e sul cambio radicale del processo di reclutamento.
Mentre, dal punto di vista normativo, l’opprimente e farraginoso sistema burocratico, fatto di codici e codicilli cui gli atenei italiani debbono sottostare, penso sia sotto gli occhi di chiunque entri in una università italiana, un punto centrale dell’intervento della Giannini è stato sulla semplificazione finanziaria. In particolare, “le Università virtuose devono poter praticare una politica di bilancio che sia pienamente autonoma, impiegando anche risorse esterne al FFO”, in un sistema in cui “il livello di finanziamento e la libertà di spesa di un ateneo devono derivare solo dalle sue performance”.
Secondo il ministro, è necessario responsabilizzare gli Atenei nelle politiche di reclutamento, rafforzando gli strumenti di valutazione del merito (e sarebbe bene che in questo caso però il meccanismo delle abilitazioni divenisse una volta per tutte serio, e non falsato da leggi cambiate in corsa e ricorsi su ricorsi) e dando la possibilità alle università di reclutare gli abilitati con “procedure snelle, simili a quelle della chiamata diretta, senza inutili complicazioni”. Un meccanismo che, ad esempio, all’Università di Milano è in questi ultimi mesi stato esplorato per la chiamata diretta dei vincitori di bandi ERC (il prestigioso grant dello European Research Council), caso abbastanza isolato in Italia, ma che speriamo possa diventare pionieristico per attrarre i migliori cervelli.
Un altro importante passaggio dell’intervento del Ministro è stato su un tema che mi sta particolarmente a cuore, cioè l’attrattività dell’università italiana. Come già sottolineato la scorsa settimana sulla rivista Strade, in Italia solo il 3,8% degli studenti sono internazionali, contro una media europea dell’8,6%. È necessario favorire l’apertura del sistema universitario all’ingresso di cervelli dall’estero, che non rappresentano una competizione all’occupazione dei nostri laureati, sarebbe una argomentazione vecchia e pure protezionistica, ma uno stimolo alla crescita derivante da una sfida al rialzo per una migliore competitività sul mercato del lavoro.
C’è tanto da fare, e per la prima volta leggiamo una serie di intenzioni che paiono essere in linea con quanto atteso. Speriamo ora che #università e #ricerca diventino hashtag all’ordine del giorno di questo governo social.
NB: Mentre @SteGiannini non è così attiva su Twitter, vi consiglio di seguire Francesco Luccisano, capo della sua segreteria tecnica, che sui social network è sempre molto partecipe e dialogante (@FLuccisano)