Cosa dobbiamo imparare dal caso di Caterina

L’episodio di Caterina, la ragazza affetta da 4 malattie rare insultata e minacciata di morte per essersi espressa a favore della sperimentazione animale, ha avuto una grande eco su giornali e televisioni.

Forse troppo, aggiungo.

Troppo perché la foto della ragazza è stata sbattuta in prima pagina più e più volte strumentalizzando l’immagine del malato, sfruttando la compassione che vedere una persona in difficoltà e costantemente in ospedale può provocare. Intendiamoci, sono i media che, anche involontariamente l’hanno strumentalizzata, non chissà quali lobby farmaceutiche.

Anche per questo motivo (o forse più per la necessità di trovare un complotto a tutti i costi) sono iniziate a girare voci sulla premeditazione di questo gesto o sull’ improbabile relazione tra la ragazza e un’azienda che si occupa di animali da laboratorio che, per coincidenza, ha lo stesso cognome: Simonsen. Poco importa se queste accuse non abbiano alcun fondamento. C’è chi addirittura si è preso la briga di andare a guardare tutti i post e condivisioni su facebook della ragazza alla ricerca di un argomento al quale appigliarsi.

Ma tutto questo ha un senso? Cosa c’entrano i pareri personali (pure opinabili) pubblicati chissà quando e chissà perché su facebook con il messaggio del video di Caterina?

C’è poi un altro aspetto della questione. Dopo il clamore della vicenda, altre persone malate hanno espresso pubblicamente il proprio parere contrario alla sperimentazione animale, come la biologa Susanna Penco che rimprovera Caterina di aver strumentalizzato la sua malattia. Eppure anche lei si presenta agli incontri su questo tema e interviene nel dibattito in corso in qualità di “malata”. Oppure il video di Giovanna, anch’essa malata e contraria, usato da anni come spot “antivivisezione”. O ancora giovani ragazze che, al pari di Caterina, raccontano la propria esperienza di malate, ma puntando il dito contro la sperimentazione.

Appare però opportuno ricordare che un’argomentazione fallace è fallace indipendentemente dal fatto che a portarla sia un malato o meno. Non si può ad esempio sostenere che la sperimentazione non abbia portato alcun vantaggio per i diabetici,  o che gli effetti collaterali dei farmaci siano la prova che la sperimentazione è inutile (senza considerare inutili anche i metodi “alternativi” o le successive fasi cliniche su umani).

Dunque cosa dobbiamo imparare da questa vicenda?

Che purtroppo i media hanno bisogno di messaggi forti e shock: se al posto di Caterina ci fosse stata una qualsiasi altra persona insultata da estremisti (e purtroppo ce ne sono spesso), la diffusione della notizia sarebbe stata di gran lunga minore. Che il rischio di sembrare strumentalizzatori (specie di malati) è sempre alto, nonostante le migliori intenzioni, e si rischia di creare un circolo vizioso dove ai gesti eclatanti di risposta, seppur di dubbio valore scientifico, viene data pari rilevanza, come se si trattassero di opinioni, dove una vale l’altra.

Perciò ricordiamoci di ringraziare Caterina che ha avuto coraggio e che, pur gravemente malata, si è messa spontaneamente in gioco con lucidità per difendere la propria vita e le pratiche mediche che le han dato speranza.

Ma ricordiamoci che il messaggio che voleva mandare lei, e che dobbiamo continuare a mandare noi, non è solo condannare un gesto violento (e qui una doverosa censura va fatta anche rispetto ai recenti attacchi personali che diversi ricercatori hanno ricevuto), ma ribadire l’importanza della sperimentazione animale per la cura e la salute delle persone di oggi e di domani.

Questo lo dobbiamo a lei, a Caterina. Così ogni volta che verrà nominata la sua storia a prevalere non sarà la compassione per le sue condizioni, ma la consapevolezza di quanto ancora la ricerca biomedica, anche quella su animali, sia necessaria e vada sostenuta.

@FedeBaglioni88

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