A cosa serve la biologia molecolare se non la usi?
Ci sono sicuramente applicazioni della biologia molecolare e della biotecnologia meno controverse degli OGM.
Non è detto che per questo si usino ampiamente in Italia.
Tra queste c’è la tipizzazione dei microrganismi, compresi i patogeni.
Nel campo della sicurezza alimentare, si usa spesso la PFGE (Pulsed-Field Gel Electrophoresis). La tecnica, ormai consolidatasi dopo trent’anni di esperienza, prevede la digestione del DNA, e la separazione dei frammenti ottenuti in un gel cui si applica un campo elettrico variabile. In questo modo possono essere separati anche frammenti piuttosto grandi di DNA.
Quando più persone si ammalano per via di un alimento contaminato da microrganismi, c’è un “colpevole”, un gruppo di batteri o virus praticamente identici, che va individuato, come in un’indagine poliziesca, sia per capire cosa è successo sia per bloccare l’ulteriore diffusione delle infezioni.
La microbiologia classica, con l’analisi di campioni umani (feci, sangue, ecc) o di campioni di alimento, disegna l’identikit del “colpevole”; si arriva alla specie, e a qualche ulteriore caratteristica utile. Un po’come i risultati delle prime indagini forensi: età, corporatura, e così via.
Ma risolutive sono le impronte digitali – il DNA. Queste ci permettono di capire se due “crimini” (due casi di malattia che supponiamo trasmessi da un alimento) sono veramente collegati, oppure se si tratta di coincidenza. Non solo, si può andare negli archivi e sapere dove quel virus o quel batterio (o qualcuno geneticamente molto simile) ha già colpito.
Anche in Italia abbiamo queste capacità analitiche. Per esempio, per Listeria monocytogenes, è l‘Istituto Superiore di Sanità a fare questo lavoro, e a trasmettere i pulsotipi a livello europeo per confronti ed archiviazione.
Un tempo si capiva che c’era un unico “colpevole”, un unico microorganismo moltiplicatosi, dal fatto che 90 farmacisti stavano male ad uno stesso convegno (come accaduto pochi giorni fa a Bari) o i bambini della stessa scuola si ammalavano (come, più tristemente, è accaduto a Sondrio in un asilo, per SEU).
Oggi, a distanza di mille chilometri, due persone che si ammalano per colpa dello stesso microorganismo possono essere riconosciuto dal pulsotipo, e anche se l’unica altra cosa che hanno in comune è aver consumato un certo alimento, possono essere identificati. Intervistandoli si arriva all’alimento comune, e si stronca sul nascere un’epidemia.
Ma naturalmente bisogna darsi da fare.
Bisogna che gli ospedali segnalino i casi, attivino l’Istituto Superiore di Sanità, richiedano i risultati, intervistino seriamente i pazienti, con aggressività, perché come nelle indagini poliziesche anche in quelle epidemiologiche la pista diventa facilmente fredda, sia perché i pazienti dimenticano, sia perché i campioni di alimento, magari rimasti in frigorifero, vengono buttati via (e magari qualche azienda furbetta disinfetta e butta via tutto).
Ai primi di ottobre, ho letto con sorpresa di alcuni casi di listeriosi umana in provincia di Rieti. Come ho potuto apprendere dopo, i casi confermati, entrambi gravissimi e con almeno un decesso che ho potuto accertare, erano due (la stampa ha fatto un po’ di confusione). L’associazione temporale e geografica suggerisce, ma certamente non prova, un legame.
Leggendo la stampa locale, si è subito ipotizzato un legame con un’azienda locale, non si sa bene perché, con le solite indagini penali sbandierate, che poi i rilievi ambientali dello Zooprofilattico hanno smentito.
Escluso questo “sospettato”, sembra che si sia rinunciato: non era interessante capire se i casi erano veramente associati (e quindi c’era quasi certamente un alimento pericoloso in giro), con indagini sull’acqua di pozzo (senza alcun fondamento scientifico evidente).
Quello di cui non si è parlato è degli unici dati interessanti per prevenire altri casi: se e quali alimenti a rischio avessero mangiato, e se i pulsotipi degli isolati (spesso è difficile avere gli isolati perché un trattamento antibiotico precoce impedisce l’isolamento, ma in questo caso c’erano) fossero identici.
Di certo, nel tempo utile, all’Istituto Superiore di Sanità non è arrivato nulla (nonostante esplicite richieste), e, probabilmente, un “criminale” è rimasto a piede libero, morendo poi di morte naturale e, spero, senza fare altri danni.
Il Bollettino Epidemiomogico Nazionale non riporta praticamente mai focolai epidemici, perché, al contrario che altrove, le ASL non propongono la pubblicazione delle loro indagini. Il risultato è che le informazioni su come indagare questi fenomeni, sui risultati, sulle cause, non circolano, né tra i controllori, né tra le industrie.
Naturalmente questo non accade sempre.
Ma che senso ha dotarsi di biotecnologi, di biotecnologie se poi non si vuole utilizzarle per tutelare la salute delle persone in uno dei modi più ovvi ed evidenti?