Agricoltura e proprietà intellettuale: un po’ di storia

Il tema della proprietà intellettuale in agricoltura, della non riseminabilità del raccolto, degli ibridi, viene di tanto in tanto rispolverato, nella maggior parte dei casi in chiave scandalistica, da questa o quella trasmissione televisiva. Stasera sarà Report (RAI3) a farlo.

Quello cui invariabilmente si assiste, accanto agli errori grossolani come ad esempio l’anno di scoperta della struttura del DNA, è la mancanza di una chiave di lettura storica del fenomeno.

Non sappiamo se accadrà anche questa sera, in ogni caso abbiamo voluto colmare questa lacuna scambiando due chiacchiere con il prof. Tommaso Maggiore, uno dei massimi esperti italiani di agricoltura e soprattutto uno dei protagonisti della rivoluzione che questo settore ha vissuto nell’ultimo secolo.

Professore, partiamo dall’oggi, i semi e le piante possono essere coperti da proprietà intellettuale?

Oggi sì.

Ed è sempre stato così?

Non è sempre stato così, lo è dopo l’approvazione della legge sementiera italiana e la costituzione del registro nazionale delle varietà. Siamo attorno agli anni 70. E’ qui da ricordare che, come in tutti i paesi  Europei, nel 1973 fu costituito l’Istituto Conservatore dei Registri Varietali, che un anno dopo fu cancellato in quanto il Parlamento lo ritenne inutile! (Come è possibile avere in un paese progressista un Istituto conservatore!!). Le competenze dello stesso passarono al Ministero dell’Agricoltura, che tuttora le detiene.

E prima?

Nel dopoguerra chi era interessato ad avere dei vantaggi dalla costituzione di nuove varietà la brevettava con un brevetto industriale. Esempio classico la varietà di frumento San Pastore F 14 che fu brevettata dal Professor Cirillo Maliani e che ne vendette la licenza a Federconsorzi di cui era anche Direttore dell’Ufficio Sementi.

Nel periodo pre-bellico non si faceva nulla in quanto la maggior parte delle varietà era costituita da enti pubblici che quindi distribuivano alle società sementiere la varietà e queste si preoccupavano di conservarne la purezza e di venderle. Chiariamoci, non esistevano però controlli per la certificazione. Questi controlli nascono in modo volontario nell’ambito di Federconsorzi, negli anni 50, poi, dopo la metà di quel decennio, nasce l’ENSE, l’Ente Nazionale Sementi Elette, grazie alla Cariplo, che certifica come ente terzo la semente. L’ente diventa pubblico dopo gli anni 80, e, ironia della sorte viene dichiarato, poco dopo, ente inutile. Di fatto però sopravvive alla sua morte politica e  ha continuato ad avere una vita travagliata fino allo scorso anno, quando finalmente è passata sotto il CRA, il Centro per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura che fa riferimento al Mipaaf.

Quindi le ditte sementiere esistevano già?

Sì, nascono alla fine dell’800 in particolare a Milano (Ingegnoli) e Padova (Sgaravatti) vicino a Tombolo, un’area sementiera storica per le orticole.

E come proteggevano le loro varietà, se le proteggevano?

Con il marketing, ma soprattutto cercando materiali nuovi e migliori in Italia, ma in alcuni casi anche all’estero. Fu Ingegnoli ad esempio a portare in Italia la varietà di frumento tenero a bassissima taglia Agakomuki usata nel 1900 da Strampelli per incrociarla con il Rieti e ottenere varietà a più bassa taglia e molto più produttive.

Quindi non proteggevano?

No, allora non proteggeva nessuno. In alcuni casi però il materiale era protetto in modo automatico da barriere tecnologiche, perché l’agricoltore non aveva né le strutture né la capacità di riprodurlo. Esempio classico è la bietola che è biennale. Devi prendere le radici, dopo il primo anno, estirparle, tenerle in inverno all’asciutto, trapiantarle in primavera, ottenere nel secondo anno  seme da essiccare, pulire e confezionare per ritornarlo all’agricoltore pulito e opportunamente confezionato. In altri casi è la biologia a proteggerlo, come nel caso degli ibridi, che seppur molto produttivi, se riseminati danno performance molto scadenti. Ragionamento invece opposto per colture che si propagano per talea che sono facilmente riproducibili da chiunque.

E quando nasce la necessità di proteggere questi materiali?

Nasce in particolare negli anni 70  per quelle varietà e per quei materiali che appunto non erano in grado di autoproteggersi come ad esempio il grano, l’orzo… o le rose, le varietà dei fruttiferi o i portinnesti.

Beh, il grano c’era anche prima degli anni 70…

Certo, solo che fino ad allora le costituzioni varietali erano, almeno in Italia, prevalentemente fatte da enti pubblici. In quegli anni cominciarono ad introdursi anche costitutori privati, in particolare francesi, per orzo e frumento, o tedeschi per la loiessa o per le specie da prato.

Perché arriva il privato?

Perché il pubblico abbandona la costituzione di nuove varietà o degli ibridi, ritenendo di fare solo i materiali di base che poi avrebbero dovuto essere sviluppati dai sementieri con le varietà da coltivare. Purtroppo però il settore italiano non era pronto e da qui l’ingresso anche dei gruppi stranieri.

Che ne è rimasto di questa ricerca sui materiali di base da parte del pubblico?

Oggi è ridottissima prevalentemente per carenza di fondi.

Perché lo Stato ha deciso di tutelare la proprietà intellettuale anche in agricoltura?

Perché altrimenti chi decide di lavorarci?

E questa tutela ha fatto più bene o più male allo sviluppo agrario?

Ha fatto bene, perché stimola il costitutore ad andare avanti e stimola soprattutto una pluralità di costitutori.

Ma non ci bastavano le varietà che avevamo?

No. Perché non avremmo utilizzato l’innovazione data dal continuo  miglioramento genetico che invece abbiamo utilizzato. Nel mais, ad esempio, siamo passati da 20 quintali per ettaro negli anni 50 ai 200 del 2000. Nel frumento tenero siamo passati dai 20 del 1930 agli 80 del 2000. Nel frumento duro dai 10 del 1930 ai 60 del 2000. Nel pomodoro da industria si è passati dai 300 quintali del 50 ai 1.300 del 2000, con in più una differenza importante: nel 1950 lo facevi con l’aiuto di pali e fili come tutori, e con 7 raccolte all’anno. Oggi i 1.300 quintali li fai a terra e li raccogli a macchina in una sola volta. Senza parlare dei miglioramenti qualitativi, una pasta del 1950 non aveva una tenuta alla cottura comparabile a quella di una varietà moderna (siamo passati dall’11% al 13% di proteina). Nel 1950 per il pane si usava un San Pastore, buono per fare i biscotti, che doveva essere tagliato con altri grani meno produttivi ma qualitativamente superiori per fare pane, mentre oggi usiamo varietà direttamente panificabili e ciò è dovuto all’aumento di proteina della granella.

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