Non di soli brevetti vive la scienza

Nelle ultime settimane, l’editoriale dell’Economist “How science goes wrong” ha dato origine a un ampio dibattito sul sistema di autovalutazione della scienza e della ricerca. Anche Prometeus è intervenuto nella discussione con i commenti di Simone Maccaferri e Giordano Masini.

Brevetti e proprietà intellettuale sono stati più volte chiamati in causa. In particolare Giordano Masini partendo dall’ intervento “How economy goes wrong” di Paolo Bianco, invita alla seguente riflessione:

la legislazione che protegge la proprietà intellettuale e le attribuisce arbitrariamente un valore commerciale è davvero un incentivo o piuttosto un disincentivo all’innovazione e alla diffusione della conoscenza? E quanto di ciò che racconta l’Economist è figlio di quella legislazione o almeno dei suoi aspetti più paradossali?

Ecco alcune considerazioni personali in merito.

Ciò che rileva Bianco, ovvero che

la pubblicazione è sostituita progressivamente dal brevetto, che il finanziamento pubblico alla scienza si avvia alla rottamazione e che la scienza si commercializza

trova conferma nella mia esperienza quotidiana. Se ciò sia frutto di un’economia in recessione o di una diversa visione della conoscenza, non sono sicura. Probabilmente entrambe le cose. Di fatto c’è che, in Italia come in tutto il mondo, i gruppi di ricerca che in passato vivevano di fondi pubblici, ora si trovano a dover sopravvivere escogitando il modo di autofinanziarsi con denaro privato, se possibile anche collaborando con l’industria. Alla ricerca è quasi sempre richiesto un ritorno commerciale immediato e il ricercatore è costretto a diventare anche imprenditore per avere la possibilità di proseguire il proprio lavoro.

Conseguenza di questo meccanismo è che la pubblicazione di un articolo è sostituita dal brevetto.

Il brevetto è però solo uno strumento funzionale a creare guadagni sul breve periodo (dove per “breve” intendo 10-20 anni). Esso offre un’esclusiva limitata nel tempo sull’invenzione scaturita dalla ricerca. Il valore commerciale di un’invenzione però sta nell’idea stessa, non nel brevetto che la protegge. Soprattutto non tutta la ricerca sfocia in un’invenzione adatta ad essere sfruttata commercialmente. Talvolta crea soltanto scoperta o conoscenza.

Per equilibrio, in cambio del monopolio, il sistema brevettuale esige la trasparenza. L’invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché sia riproducibile. Ciò permette di creare un bagaglio di informazioni molto vasto da cui altri possono attingere per generare nuove invenzioni. Ciò però è una conseguenza, non un punto di partenza. E come tutte le conseguenze, si porta dietro valori e difetti di ciò che sta a monte.

Da una buona idea nata in un contesto scientifico ed economico sano, si genera un brevetto solido che, descrivendo nei particolari il trovato, potrà costituire un incentivo all’innovazione. Dalle storture che risultano dal sistema utilizzato malamente, invece, nasce solo rumore di fondo.

Problemi quali l’addomesticamento dei risultati o addirittura la falsificazione dei dati, evidenziati dall’Economist con riferimento al sistema di peer review, sono ancor più diffusi nella letteratura brevettuale.

Inoltre sono meno controllabili, perché non vi è da parte dell’autorità una verifica preliminare al deposito e alla pubblicazione dell’oggetto di domanda di brevetto, ma solo un successivo esame volto ad accertare essenzialmente i requisiti formali di brevettabilità.

Ecco che, essendo il sistema brevettuale soltanto uno strumento, può essere utilizzato in modo virtuoso o vizioso a seconda dei casi. Soprattutto può essere messo a servizio soltanto di una limitata categoria di prodotti della scienza, vale a dire quelli che creano tecnologia sfruttabile nel breve termine.

Utilizzarlo come mezzo principe per valutare la scienza o trattarlo come fine ultimo della ricerca diventa pericoloso e controproducente poiché non è per questo che è stato concepito.

Questo però non è un problema insito nella legislazione brevettuale, bensì nelle politiche economiche che da essa sono slegate.

@alessandrabosia

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