How politics go wrong

L’articolo “How Science Goes Wrong” dell’Economist ha suscitato non poco dibattito anche in Italia.

La provocazione è di quelle importanti, per questo Prometeus ha deciso di ospitare una riflessione di Giordano Masini, caporedattore di Strade, nonché imprenditore agricolo e blogger molto attento ai temi economici, di politica agricola oltre che scientifici.

Mi piace pensare però che tutti noi, come ricercatori o comunque persone (appassionate) di scienza, si abbia almeno un paio di idee in merito. Idee che vi invito a condividere. Noi, dopotutto, siamo qui anche per questo.

@DNAyx

 

Anna Meldolesi, nel suo blog sul Corriere, ha ospitato un interessante scambio di opinioni sugli errori della scienza tra Elena Cattaneo e Paolo Bianco.

Quest’ultimo intitola il suo intervento “How economy goes wrong”, ed è a lui che vorrei, nel mio piccolo, provare a rispondere. Il centro del ragionamento di Bianco è in questo passo, che cito per intero per non rischiare di banalizzarne il contenuto:

Cara Anna, l’epoca del grande successo della scienza, dice lo stesso articolo dell’Economist, è quella che comincia dalla fine della seconda guerra mondiale. Quell’epoca è segnata e definita da alcuni fatti precisi: è l’era di Vannevar Bush e del finanziamento pubblico alla libera ricerca biomedica, nonché del finanziamento industriale a ricerca e sviluppo industriale. E’ l’epoca in cui la scienza è “bene comune” e per questo finanziata con denaro pubblico. E’ l’epoca che eredita dal progetto Manhattan l’idea che la scienza sia strategicamente utile, in tempi di guerra calda e in tempo di guerra fredda. Nessuno coglie, neanche l’articolo dell’Economist, il punto ineludibile che quel periodo finisce già agli inizi degli anni Ottanta, ed è non da quell’epoca, ma esattamente dalla sua fine, che quel che l’Economistdescrive nasce.  Così come l’economia mainstream è sostituita dal pensiero “neoliberal”, la pubblicazione è sostituita progressivamente dal brevetto, il finanziamento pubblico alla scienza si avvia alla rottamazione, la scienza si commercializza, si giustifica solo in quanto utile o “translational”, diventa oggetto di misura commerciale (che altro crediamo che siano impact factor e H-index, se non sistemi metrici convertibili in valore finanziario?). Più in generale, l’epoca in cui il sapere è un valore umano e civile, compatibile con la sua rilevanza strategica militare, e funzionale allo sviluppo industriale ma da questo indipendente, sfuma in quella in cui il sapere è tutt’al più utile all’innovazione commerciale direttamente perseguita in ambito accademico, o non è.

 

L’epoca della scienza “bene comune” non è nata con la fine della seconda guerra mondiale. Piuttosto, è uno dei paradigmi che ha condotto a quella guerra. Le ricerche di Mengele erano finanziate con denaro pubblico. Altrove, lo erano quelle di Lysenko, che ha lavorato ininterrottamente e coerentemente dagli anni ‘30 agli anni ’60. Sia prima, quindi, che dopo la seconda guerra mondiale. Erano proprio quelli i tempi in cui la ricerca era strategicamente utile, in cui il sapere era un valore umano e civile compatibile, ma anche subalterno, alla sua rilevanza strategica. Tra un regolatore pubblico che finanzia, in nome del bene comune, Mengele e Lysenko, e il mercato che attribuisce un “valore commerciale alla conoscenza”, personalmente mi tengo ben stretto il secondo.

L’idea che le degenerazioni illustrate dall’Economist siano figlie dei tempi, di un certo pensiero economico o di una ideologia dominante è un modo, in fondo, per affermarne l’ineluttabilità. Proprio quello di cui non abbiamo bisogno. Come per contrastare le concentrazioni monopolistiche esistono le legislazioni antitrust, molto più efficienti e a buon mercato di un ritorno all’economia pianificata, allo stesso modo i fenomeni descritti dall’Economist devono essere analizzati, spiegati e contrastati ferocemente nella loro concretezza ed attualità, tanto dal mondo scientifico che dai regolatori pubblici.

Facciamo un esempio: quando si dice che “la pubblicazione è sostituita progressivamente dal brevetto” – ma l’Economist parlava dei pericoli del publish or perish, non del patent or perish –  dovremmo tenere a mente che proprio il brevetto  è il più classico degli esempi di valore della conoscenza imposto non dal mercato, ma dal regolatore pubblico. E proprio in nome della tutela di un “bene comune”: la protezione della proprietà intellettuale è ritenuta infatti un irrinunciabile incentivo all‘innovazione. Ecco un buon argomento di discussione: la legislazione che protegge la proprietà intellettuale e le attribuisce arbitrariamente un valore commerciale è davvero un incentivo o piuttosto un disincentivo all’innovazione e alla diffusione della conoscenza? E quanto di ciò che racconta l’Economist è figlio di quella legislazione o almeno dei suoi aspetti più paradossali? Forse i tempi sono maturi per cominciare a parlarne.

Così come è il caso di cominciare a parlare del confirmation bias, e delle distorsioni che produce dal momento in cui alle case farmaceutiche è consentito di scegliere di pubblicare solo i risultati dei trial che ritengono utili all’autorizzazione di un nuovo farmaco. E via discorrendo, di carne al fuoco ce ne è davvero tanta. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ottenere regole migliori, non quello di imporre, chissà come poi, un diverso sistema di valori, peraltro discutibile.

 

@LaValleDelSiele

 

Strade tornerà sull’argomento nel prossimo numero della rivista.

 

 

 

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