Nanotecnologie nel piatto
Il 16 maggio di quest’anno è morto il padre della nanotecnologia, Heinrich Rohrer. Me ne sono ricordato ad un convegno di qualche giorno fa sulla valutazione dei rischi dei nanomateriali negli alimenti organizzato dall‘Istituto Superiore di Sanità (ben organizzato anche per la libertà di dibattito, in quest’epoca oscura e miserabile di “solo domande preordinate”).
Dal necrologio di Rohrer ho finalmente capito cos’è questa nanotecnologia: è, per spiegarlo anche ai bambini, la capacità di usare gli atomi come fossero mattoncini di lego.
Infatti, una delle prime applicazioni fu lo scrivere, con atomi di xeno, l’acronimo dell’azienda per cui lavoravano i ricercatori attivi in quest’area (IBM). Si è passato poi a cose più interessanti, quest’anno sono arrivate le prime creme solari con filtri nano, che cioè non pitturano la faccia di bianco (lo si può vedere dall’etichetta).
In campo alimentare, le prospettive sono nutrienti più biodisponibili, packaging più efficaci, consistenza migliorata, ed altre. L’Unione europea è stata, tra i grandi blocchi commerciali, quella più attiva sul piano regolamentare (che poi sia un bene o un male, vista l’esperienza con gli OGM, si vedrà). Di fatto, sono già stati autorizzati nanomateriali per l’uso nel packaging alimentare: nerofumo, silicio diossido (tra i nanomateriali più rilevanti dal punto di vista commerciale), e titanio nitruro, tutti dopo specifica opinione EFSA.
Forse più sorprendente è stata la scoperta che nanomateriali, cioè atomi non disposti a casaccio ma formanti precise strutture di dimensioni nanometriche, erano già presenti in additivi già autorizzati, in particolare nel titanio diossido (E171) e nel più diffuso diossido di silicio (E551). Insomma, non sono poi così nuovi.
Quindi, è chiaro che da un tempo indeterminato, mangiamo anche nanomateriali, senza particolari conseguenze.
Giusto però che, nell’ambito della rivalutazione degli additivi attualmente in corso, si tenga conto di anche di questo fattore, visto che gli esperimenti non sono stati fatti conoscendo la specifiche quantità dei nanomateriali. Solo ora, infatti, si stanno mettendo a punto sistemi analitici adeguati (e con non poche difficoltà).
Per quanto riguarda le prove sulle proprietà tossicologiche, ho qualche dubbio sul basarsi su singoli metodi in vitro; abbiamo già visto in altri contesti (OGM) come la prova di digestione in vitro non avessse molto valore predittivo; serve una pluralità di metodi, e mi sembra che a livello internazionale si stia lavorando nella direzione giusta.
Servono però altre prove in vivo, serve la famosa sperimentazione animale?
In alcuni casi forse sì. Ma mi ha lasciato decisamente perplesso l’affermazione di una tossicologa presente al convegno rispetto ad un primo studio fatto su animali: “un tossicologo è sempre contento di vedere un effetto”.
Se è una ferma opinione, non sono tanto d’accordo, anche perché vorrebbe dire che o abbiamo sottovalutato un rischio che invece c’è (cosa che lo studio di per sé, per le sue caratteristiche, non dimostrava affatto), o che lo studio non è tanto rilevante per valutare i rischi cui è esposta la popolazione.
Certamente, da un punto di vista scientifico, non possiamo condurre esperimenti per dimostrare che qualcosa è sicuro, ma solo per tentare di provare il contrario, restando convinti che i rischi sono trascurabili fino ad evidenze contrarie. Allo stesso tempo, però, se gli studi non sono disegnati con un razionale molto preciso, in modo da essere pertinenti, non sono più giustificati sia sotto il profilo del sacrificio degli animali, che sotto quello economico, o dell’avanzamento della scienza. L’idea che solo gli studi che trovano un effetto servono continua a stupirmi, anche per i continui appelli di molte persone in gamba a pubblicare anche i risultati negativi (nessun effetto) che sono comunque informativi.
Gli scienziati per primi devono fare buona ricerca, anche se, per i nanomateriali, la montagna di finanziamenti rischia di ingenerare una corsa – ancora non evidente ma probabile – a provare che qualche effetto ci sia. Non si tratta di non intralciare l’innovazione non facendo ricerche sui rischi, ma di fare ricerche valide e rilevanti.
Aleggia su tutti il timore che si ripeta il fato degli OGM, e ci sono quindi sentimenti contrastanti sull’atteggiamento europeo così prudente, sull’avere scritto regole prima di avere metodi analitici, sulla ricerca dei rischi che può diventare del pelo nell’uovo, ed anche sull’esigenza di informare i consumatori. Se usati negli alimenti, i nanomateriali, comunque soggetti a procedure di approvazione stringenti, dovranno essere etichettati se sono il risultato di un procedimento volontario; una proposta di regolamento, in dirittura d’arrivo, esenterà solo gli additivi alimentari (una scelta forse necessaria, ma sicuramente con qualche problema di reazioni negative).
Vedremo se ricercatori, industria ed autorità europee gestiranno bene questa tecnologia, dimostrando che si può essere prudenti senza essere ottusi, e trasparenti: ovvero che l’approccio europeo funziona.
Credo che si possa essere ottimisti. Sia in Italia che fuori, ci sono approcci e voci positivi; tutto quello che sappiamo finora, e quello che è stato organizzato come ricerca e verifiche, lascia supporre che potremmo godere dei benefici dei nanomateriali negli alimenti, senza particolari rischi.