Buone pratiche di bocciatura
Ora in tutta la storia Stamina abbiamo un punto fermo. Gli esperti che hanno valutato i protocolli li hanno trovati totalmente inadeguati. La polemica però è destinata a non placarsi. Uno degli elementi su cui i fautori del Metodo Vannoni stanno, già da tempo, costruendo una linea di difesa è la richiesta da parte del Ministero di adattare il protocollo alle GMP.
Va in questa direzione anche la recente dichiarazione di Marino Andolina, vice-presidente di Stamina, che sostiene ad esempio:
Stamina é stata costretta a semplificare la procedura in quanto, disattendendo le promesse fatte, la Commissione ha vietato ai biologi di Stamina di manipolare le cellule, lasciando questo delicato lavoro in mani inesperte, e soprattutto ha imposto di seguire pedissequamente le regole farmaceutiche che impediscono di utilizzare alcune molecole che utilizziamo per trasformare le cellule staminali in cellule nervose.
Ho voluto pertanto sentire Daniela Profico, Direttore di Produzione della Cell Factory dell’AOSP di Terni, che con le staminali e le GMP lavora da alcuni anni, per capire quanto è difendibile questa posizione.
A voi, come sempre, l’ardua sentenza.
La polemica attorno alle GMP era già scoppiata il 17 agosto quando Davide Vannoni, presidente della Stamina Foundation, ha pubblicato su facebook un messaggio in cui riporta, fra le varie cose:
la prima richiesta dell’ISS è stata che la metodica dovesse essere standardizzata per poter essere riprodotta da biologi non esperti della stessa in laboratori farmaceutici. Ciò ha richiesto ai biologi di Stamina un intenso periodo di lavoro che ha portato ad una semplificazione forzata della metodica, cancellando 7 anni di innovazioni che sono state prodotte sulla stessa e che fanno parte di un expertise formatosi nel tempo con una ricerca meticolosa e dedicata solamente a questo tipo di linee cellulari ed ai suoi effetti terapeutici.
Sostanzialmente sostiene di aver dovuto semplificare il metodo di coltura delle cellule, per adattarlo alla produzione secondo le GMP (Good Manufacturing Practice) limitando quindi il potenziale terapeutico del prodotto.
In realtà le GMP non richiedono in nessun modo di cambiare un protocollo di coltura: il capitolo 5 delle GMP, dedicato proprio alla produzione, riporta infatti:
Production operations must follow clearly defined procedures; they must comply with the principles of Good Manufacturing Practice in order to obtain products of the requisite quality and be in accordance with the relevant manufacturing and marketing authorisations
Ovvero che la produzione deve avvenire in accordo a procedure scritte, chiaramente definite ed in conformità alle GMP per ottenere un prodotto che abbia i requisiti qualitativi descritti nell’autorizzazione alla produzione o all’immissione in commercio.
Quindi il requisito primario di una produzione farmaceutica (perché le cellule estensivamente manipolate sono da considerarsi un farmaco secondo il regolamento europeo 1394/2007) è che sia standardizzata e porti sempre ad ottenere un prodotto di qualità, principio che sembra avere poco a che fare con quanto dichiarato da Vannoni.
Le GMP non entrano nel merito delle operazioni manuali da fare durante una produzione farmaceutica, d’altronde sarebbe impossibile farlo per ciascun processo produttivo, dall’acido acetilsalicilico alle cellule staminali ematopoietiche, bensì danno indicazioni sulle modalità di gestione, indicazioni che sono applicabili a qualsiasi processo.
Nei processi di sintesi chimica, descrivere il metodo di produzione, è relativamente “facile”, la sintesi di un farmaco basata su una reazione chimica richiede infatti quantità precise di ciascuna materia prima, che combinate in certe condizioni (temperatura, umidità, agitazione) danno origine al farmaco o ad un suo precursore. Chi produce questi medicinali sa che con una quantità X di ciascuna materia prima otterrà alla fine un determinato numero di unità (pillole, fiale, siringhe) con uno scarto minimo.
Al contrario, chi si occupa di ricerca su colture cellulari sa bene che talvolta le colture si valutano ad occhio, ad esempio in termini di densità o confluenza, e sicuramente mettere per iscritto i criteri con cui un occhio esperto valuta una coltura può essere difficile, ma non è impossibile.
Pensate alle vostre nonne, zie o alle vostre mamme, che fanno impasti di torte e tagliatelle prendendo manciate sparse di ingredienti senza apparente criterio: in quei gesti che loro farebbero anche bendate, c’è un protocollo talmente preciso che da anni dà sempre lo stesso meraviglioso risultato gastronomico di gran qualità.
Con le produzioni cellulari è lo stesso, e trasformare un protocollo di laboratorio in un metodo di produzione altro non è che parametrizzare ciò che l’operatore valuta osservando le cellule e come questa valutazione si ripercuota sulle attività da eseguire, descrivendo nel miglior modo possibile come si fa questa valutazione in una apposita procedura. Che pare sia proprio quello che manca nei protocolli consegnati da Stamina.
Nella relazione i tecnici fanno notare come nel protocollo mancassero informazioni riguardo al differenziamento neuronale delle cellule, cosa che fa venire meno l’aspetto innovativo del metodo. Inoltre non ci sono definizioni biologiche delle cellule staminali prodotte, cioè non ci sono prove che dimostrino le loro proprietà. Non si conosce nemmeno la caratteristica della popolazione cellulare prodotta, cosa che rappresenterebbe un problema sia di efficacia che di sicurezza. (Fonte: Repubblica)
Non c’è bisogno di semplificazioni, solo di chiarezza.
Daniela Profico