Alimenti scaduti e alimenti scadenti
Prima e durante l’estate, giornali, blog ed esperti si sono affannati a spiegare come, almeno entro certi limiti, consumare alimenti oltre la data consigliata dal produttore non sia affatto da escludersi, e anzi da incoraggiare. Si è parlato molto (e molto imprecisamente) di un’iniziativa greca per consentire la vendita di alimenti oltre la loro vita commerciale. Nel Regno Unito vi sono siti specializzati nella vendita di alimenti che hanno superato la data in cui dovrebbero essere preferibilmente consumati. Con la crisi, ridurre gli sprechi non è un male.
A molti che hanno scritto dell’argomento è però sfuggita, come alcuni esperti hanno notato, una distinzione fondamentale prevista dalla normativa alimentare.
Non tutti i prodotti hanno una data di scadenza (“da consumarsi entro”, “use by”) che la legge riconosce come limite con valenza sanitaria.
In realtà, più che la sicurezza alimentare è la natura (molto) deperibile a determinare l’esigenza di una scadenza precisa. Se spesso, come nel caso del latte, il problema non è propriamente sanitario, in altri casi sono specifiche prove microbiologiche a dettare la scadenza. I risultati infatti permettono di concludere che, anche in caso di contaminazione accidentale con patogeni, il prodotto resta sicuro fino ad una certa data (perché i batteri dannosi, se presenti, crescono sì, ma molto lentamente, e ci mettono giorni o settimane ad essere abbastanza numerosi da causare malattie), e quindi la data, in questi casi, ha una precisa valenza di sicurezza.
La vendita di alimenti che l’hanno superata è sanzionata penalmente.
Vi sono però degli alimenti stabili o che comunque non deperiscono, ma semplicemente perdono alcuni requisiti qualitativi.
In questo caso l’azienda produttrice garantisce questi requisiti qualitativi solo entro il cosiddetto “Termine Minimo di Conservazione”, o TMC. E’ la dizione “consumarsi preferibilmente entro” che si legge in etichetta. La nostra Cassazione ha chiarito che vendere un alimento oltre il TMC non comporta una sanzione penale.
In diversi ne ricavano che è giusto consigliare di consumare (e anche vendere) alcuni alimenti oltre il TMC. Altri consigliano, entro certi limiti, anche di andare un po’ oltre la scadenza per i molto deperibili. Personalmente, se sono sempre dalla parte della ragionevolezza e del buon senso, e certo contro gli sprechi, ho alcuni dubbi di sostanza.
In primo luogo, per esperienza, so che è sempre difficile interpretare, oltre la lettera, un’indicazione fornita in etichetta da un produttore.
Con quella data l’azienda si è voluta tutelare da un’ipotesi del tutto improbabile, oppure si tratta di rischio concreto, e l’avvertenza serve a fronteggiare legalmente numerosi casi di reclami e danni già in essere? E’ molto difficile da dire a priori.
Non è affatto vero che le avvertenze sono tutte molto precauzionali, ed è già stato dato per scontato che i consumatori non le rispettino: a volte sì, a volte no. Allo stesso modo, a volte, data di scadenza, quando non prescritte dalla legge, o TMC, sono stati fissati molto prudenzialmente; ma non sono mancati casi in cui siano stati “spinti” già molto in avanti, per consentire al prodotto di restare sugli scaffali più a lungo. La qualità si era già praticamente persa nella vita del prodotto.
Non prenderei alla leggera quanto scrive un’azienda, senza un’approfondita conoscenza della situazione: da un punto di vista legale, il consumatore che non segue le indicazioni in etichetta ha, almeno di partenza, sempre torto.
Cosa c’è poi dentro un prodotto oltre il TMC? L’azienda garantisce che corrisponda a quanto riportato in etichetta solo fino al TMC. E dopo? Secondo alcuni, è accettabile che il prodotto diventi una “scatola nera” che viene acquistato a rischio e pericolo del consumatore, avvertito da una semplice indicazione (“supera il TMC…”).
Quindi un succo che vanta di essere ricco di vitamina C potrebbe aver perso parte, o tutta, la vitamina C: non si sa. Il consumatore, si dice, dovrebbe sapere che, oltre il TMC compra semplicemente un succo, non uno ricco di vitamina C (forse sì, forse no). Lo stesso per tanti prodotti che contengono vitamine o altri nutrienti soggetti a degradazione che spesso sono alla base di indicazioni nutrizionali mirabolanti.
Ma quanti consumatori sono realisticamente consapevoli? Un integratore di vitamine quando le vitamine hanno iniziato a degradarsi, quanto non si sa, può lo stesso essere venduto e non compromettere la salute del consumatore?
Mi domando anche se sia giusto che un prodotto che reca ancora ben scritto il suo contenuto, ormai invece incerto, possa competere con un’alternativa che invece quel contenuto la garantisce davvero, anche se magari quello oltre il TMC è di una grande marca.
Ma che problema c’è, se si tratta per esempio, di fagioli in scatola? Si dice che i prodotti con TMC, non essendo deperibili, dovrebbero essere sicuri sempre, o per un periodo molto lungo, essendo “al massimo”, per esempio, ammuffiti o irranciditi. Già non mi piace che questo “periodo lungo” diventi arbitrario, soprattutto perché le aziende, giustamente, considerano finita la vita del prodotto quando trascorre il TMC (per esempio, i dati e le analisi sulla produzione non vengono a volte conservati oltre il TMC; non si fanno richiami dal mercato se la vita commerciale è finita, ecc.).
Distinguere i difetti causati dal tempo dai difetti originari non è affatto semplice.
Prendiamo un tappo difettoso di una passata; vi è una lenta perdita di ermeticità, con conseguente ingresso di aria e muffe. Perché non aspettare la scadenza del TMC per vendere il prodotto? Anzi, se oltre il TMC salta il principio per cui il produttore è responsabile dei difetti dell’alimento prodotto, perché non inserire nel circuito oltre TMC tutte le partite (di prodotti) con problemi di qualità?
Il nostro sistema di sicurezza e qualità alimentare si regge su un’attribuzione di responsabilità, proprio perché al consumatore è difficile valutare salubrità e qualità di un alimento. In linea di massima, chi produce è responsabile.
Far saltare questo sistema, creando una classe di alimenti il cui contenuto non risponde a quanto dichiarato, che possono essere venduti anche se si rivelano inadatti al consumo umano, può avere conseguenze imprevedibili.
Perché non produrre alimenti di infima qualità, con pochi controlli, con TMC volontariamente brevi in modo da poter poi scaricare tutti i difetti sul consumatore? Davvero sarebbe un vantaggio per la collettività la comparsa di outlet di alimenti scaduti o difettosi senza padre né madre?
Insomma, a mio avviso, se consumare ed acquistare alimenti oltre la data consigliata fornisce sicuramente la soddisfazione di non sprecare – un po’come vuotare il piatto per le mamme ansiose – e anche un certo senso di penitenza assolta, non mi sembra una strada maestra, o consigliabile.
In realtà, basterebbe, ora che i prezzi degli alimenti possono essere facilmente variati elettronicamente, abbassare drasticamente il prezzo quando il TMC si avvicina, e in casa organizzare la cucina sulla base delle scadenze. Forse in queste direzioni andrebbero dirette le energie degli attivisti dello scaduto.