Absolute zero Apr04

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Absolute zero

Avere strumenti e metodiche analitiche sempre più precise ed accurate è motivo di soddisfazione per l’analista. Laboratori di ricerca e, spesso, start-up brillanti si impegnano in una corsa per sviluppare soluzioni più avanzate, con risultati a volte straordinari. Fantastico.

Ci sono però delle situazioni in cui questa corsa alla precisione può rivelarsi controproducente?

Dei casi in cui almeno l’applicazione di soluzioni più potenti non è complessivamente benefica?

Senza dubbio sì, come nel caso degli allergeni alimentari.

Fino agli anni ottanta e soprattutto novanta, le allergie alimentari erano un problema solo per chi ne soffriva; la società, compresa l’industria alimentare, non se ne facevano carico.

Le allergie alimentari non sono, e non erano, un problema da poco: alcuni allergici possono rischiare la vita se mangiano un alimento contaminato, e gli esiti tragici sono tristemente noti dalle cronache. C’è anche un forte impatto sulla qualità della vita, perché non si può spesso mangiare come e con gli altri. Per questo, su iniziale pressione scandinava e poi americana, a livello internazionale, si è iniziato ad accettare l’idea che l’etichettatura degli alimenti dovesse tutelare le persone allergiche.

Addio quindi alla possibilità di nascondere la presenza di noci ed arachidi tra gli ingredienti, o di utilizzare termini ambigui per indicare i latticini. Indirettamente, poi, le aziende si sono tutelate dando indicazioni anche sul rischio di contaminazione accidentale: se su una linea produttiva si produce prima cioccolato al latte con nocciole e poi cioccolato fondente semplice, in quest’ultimo potranno trovarsi tracce, o addirittura pezzettini, frammenti, di latte o nocciole, con conseguente pericolo per il consumatore allergico.

Per tutti i contaminanti le norme, o la buona pratica, fissano dei limiti, al di sotto dei quali si ritiene che il rischio sanitario non ci sia e il prodotto sia conforme. Dopo aver deciso dell’etichettatura, tra la fine degli anni novanta e l’inizio di questo secolo, ci si è posti il problema dei limiti per gli allergeni alimentari, cioè le proteine naturalmente presenti in alcuni alimenti che sono quelle in grado di scatenare una reazione allergica. Gli esperti di allergie, tra la costernazione di chi si occupa di produzioni alimentari, hanno risposto che no, queste soglie non si potevano fissare.

Come da sempre si fa ripetere a Paracelso, la dose fa il veleno.

o, per fargli giustizia, ” Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”

Per esemplificare, ci possono essere degli enzimi epatici che trasformano una sostanza potenzialmente dannosa in una sostanza innocua, e quindi finché la dose ingerita non supera la capacità degli enzimi di “disinnescare” la sostanza, non c’è “veleno”. Per quasi tutte le sostanze tossiche questo livello “innocuo” si riesce a trovare con sperimentazioni sugli animali.

Ma nel caso delle allergie alimentari gli animali si comportano in maniera troppo diversa da noi (almeno per quanto ne capiamo ora), e quindi bisogna ricorrere a dati umani. I dati ottenuti con gli esseri umani suggeriscono però che, in rari casi, persino nanogrammi di un allergene possono scatenare una reazione allergica. Né ci sono dati per dire che una reazione scatenata da pochi microgrammi di allergene sia meno grave di quella scatenata da quantità molto più alta. I meccanismi sono di natura immunologica, dove l’amplificazione a cascata può portare ad esiti su scale molto diverse.

Quindi il consenso attuale è che le soglie, se ci sono (e i più ritengono di sì, almeno per proteggere la stragrande maggioranza degli allergici, lasciando ai più sensibili la scelta di alimenti speciali super-purificati), non si conoscono. In pratica, se un qualche metodo analitico rileva la presenza di un allergene (o dell’alimento allergenico nel caso del metodo della PCR), non si può mai escludere in assoluto il problema. Il che diventa un incubo per l’industria alimentare, la quale, per tutelarsi, è portata a dichiarare in etichetta prudenzialmente che il rischio di contaminazione del cioccolato fondente, per esempio, con il latte c’è sempre. Così, niente guai legali, ma per chi ha l’allergia c’è un alimento di meno a disposizione, anche se, con ogni probabilità, si tratta di tracce talmente ridotte che i rischi non ci sono.

Insomma, alla ricerca dello zero assoluto si può finire per danneggiare proprio gli originali beneficiari dello sviluppo tecnologico.

@lucabuk

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