Dottorato: si può (deve) fare di più

Visto che nei giorni scorsi si è parlato di ranking internazionale e delle difficoltà delle Università italiane a vincere le sfide globali, oggi voglio commentare e discutere il decreto che stabilisce i criteri per l’istituzione dei dottorati di ricerca, firmato due settimane fa dal Ministro Profumo.

Anzitutto una nota di merito. Singolare che un provvedimento come questo, cioè un regolamento attuativo della Legge 240 del 2010 (la famigerata Legge Gelmini), abbia visto la luce così tardi, ed al tempo stesso con un iter sbrigativo e poco partecipato.

Ciò è testimoniato dalle criticità fatte emergere non solo dall’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani, ma anche da numerosi esponenti del mondo universitario.

Quali sono le novità che introduce questo provvedimento?

In primo luogo, consorzi di università e centri di ricerca, anche stranieri, potranno rilasciare il titolo di dottore di ricerca, togliendo così alle sole università italiane la possibilità di erogare il titolo indistintamente dall’effettivo luogo di svolgimento dello stesso.

Inoltre, per la prima volta nel nostro Paese viene data la possibilità di attivare corsi di dottorato industriale, con la previsione di attività di ricerca presso un’impresa.

Il Ministro ha inoltre identificato le procedure di accreditamento e valutazione dei corsi di dottorato, attraverso l’agenzia ministeriale di valutazione ANVUR.

Perché le proteste e le polemiche?

Leggendo i punti salienti del provvedimento, emergono due problemi cruciali. L’Italia, ad otto anni dall’emanazione della Carta Europea dei Ricercatori, non recepisce, nonostante questo fosse previsto nelle bozze precedenti della legge, il riconoscimento dei dottorandi come “early stage researchers”. L’assenza di uno status di lavoratore, che veniva definito “un impegno esclusivo a tempo pieno”, comporta problematiche di natura professionale, di mobilità transnazionale, e di qualificazione del percorso dei dottorandi stessi. Inoltre, questo provvedimento continua a non considerare, e non sanare, il problema tutto italiano del dottorato di ricerca senza borsa di studio.

Dottorato industriale: cosa significa?

ANBI ha spesso parlato dell’importanza del dottorato industriale, tanto da aver promosso azioni dedicate all’interno del Libro Bianco delle Biotecnologie del 2009.

Il modello italiano recepisce la necessità di aumentare l’occupabilità dei dottori di ricerca nel settore privato, e di valorizzare programmi di ricerca industriale derivante da strette sinergie fra università ed impresa. Tuttavia, rispetto al gold standard dei dottorati industriali, cioè quello promosso dal governo della Danimarca nel lontano 1971, mancano alcune caratteristiche salienti. La necessità di svolgere almeno il 50% del percorso di dottorato in industria e la previsione di specifiche attività finalizzate allo sviluppo di competenze per la risoluzione delle necessità del mondo industriale avrebbero garantito una migliore competitività dei dottori di ricerca italiani a livello internazionale.

Più in generale, quello che a mio avviso manca molto in questo provvedimento, è l’assenza di parametri minimi di eccellenza per il conseguimento del titolo da parte del dottorando, e la vaghezza della norma che impone la “previsione di attività di formazione disciplinare e interdisciplinare” che ad oggi sono un punto di debolezza dei nostri dottorandi, troppo spesso impiegati dalle Università come ricercatori junior alle prime armi e non valorizzati in un percorso di accrescimento che ponga il loro orizzonte ben oltre il bancone o il singolo esperimento.

Perché quello che manca ai dottorandi italiani, rispetto ai colleghi europei e statunitensi, non è solo una borsa di studio adeguata (quello è un problema che riguarda tutto il mondo del precariato della ricerca), ma la spendibilità del titolo. Secondo gli ultimi dati dell’ADI, il 93% degli assegnisti di ricerca italiani non continuano la loro carriera universitaria. E’ necessario quindi rendere questi professionisti, potenzialmente fiore all’occhiello del nostro mercato del lavoro, nelle condizioni di sviluppare un percorso adeguato alle loro competenze ed aspirazioni.

In quattro parole?

Si può (deve) fare di più.

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